Il 14 di ogni mese

Affida a san Massimiliano Kolbe le tue intenzioni:

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Le missionarie in Polonia, ad Harmęże, ricorderanno tutti i giorni la tua preghiera e il 14 di ogni mese, memoria del martirio di Kolbe (14 agosto 1941), la porteranno alla cella del blocco 11 nel campo di Auschwitz.

http://www.kolbemission.org/cella-amore

Il fotografo di Auschwitz

Il fotografo di Auschwitz: Wilhelm Brasse da giovane ha guardato negli occhi la morte ed ora è un anziano signore dal sorriso affettuoso e i modi gentili.  

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Mi accoglie sulla soglia della sua modesta casetta nei pressi della cittadina polacca di Żywiec. Un tempo questa era la regione della Slesia, dove ebrei, polacchi e tedeschi convivevano in un intreccio pacifico di lingue e culture sotto la dinastia degli Asburgo. Wilhelm nacque loro suddito nel dicembre di 92 anni fa. Poi venne la grande crisi del ‘29, il padre perse il lavoro e suo figlio non poté finire il ginnasio. La madre lo iscrisse a un corso di fotografia e senza saperlo gli salvò la vita.

Nel 1939 la Germania invase la Polonia, Wilhelm aveva 21 anni e una scelta fatale da compiere. Diventare cittadino del Terzo Reich o rimanere polacco. Optò per la sua Patria e cominciarono le vessazioni. Tentò allora la fuga attraverso il confine con l’Ucraina, ma venne tradito e consegnato ai nazisti. Era la Pasqua del 1940. Passarono quattro mesi di cella, poi dai soldati tedeschi venne un’ultima possibilità. Arruolarsi nella Wehrmacht o partire insieme ad altri quattrocento detenuti verso una prigione sconosciuta. Wilhelm scelse di non combattere per le armate di Hitler e nella notte un treno lo portò ad Auschwitz.
«Picchiandoci con urla selvagge i kapò e le SS ci fecero scendere, ci tolsero i vestiti e ci diedero una divisa a strisce. Da quel giorno diventai un numero, il 3444». Quando Wilhelm arrivò nel lager tutto era ancora in costruzione, ma sul piazzale dell’appello il vicecomandante Karl Fritzsch chiarì subito ai prigionieri cosa li aspettava. «Questo non è un sanatorio. Questo è un campo di concentramento. Qui un ebreo vive due settimane, un pretaccio dura un mese, gli altri prigionieri tre». Aveva detto la verità. «All’inizio venni assegnato al comando costruzione strade. Il primo giorno di lavoro il kapò uccise con un bastone di legno 4 o 5 prigionieri senza motivo. Era così violento che dopo una decina di giorni cercai un altro lavoro». Agli inizi nel lager era ancora possibile muoversi con una certa libertà. «Chiesero se qualcuno voleva un lavoro leggero con cibo extra, io mi presentai subito. Venni assegnato al trasporto cadaveri. Trascinavo un carretto pieno di salme dal blocco ospedaliero al crematorio. Il lavoro era facile, ma non ce la feci a resistere, cambiai ancora finendo in un comando guidato da un kapò tedesco che finalmente non urlava né picchiava». Brasse ancora oggi ricorda tutti i nomi delle persone conosciute ad Auschwitz. Il kapò si chiamava Markus e portava un triangolo nero sulla divisa: per i nazisti era un “asociale”. Perso il lavoro si era arruolato dieci anni nella legione straniera, tornato in Patria venne subito arrestato. «Gli feci da traduttore, poi grazie a lui passai nelle cucine a trasportare pentoloni di patate, infine nel febbraio del ’41 superai una prova come fotografo e venni assegnato al reparto di polizia».Da quel momento e per quattro anni Wilhelm fotografò decine di migliaia di deportati come lui. Per ognuno tre scatti, di fronte, di lato e con il cappello. «Ma non i prigionieri con gli occhi pesti o segni di maltrattamento.

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Wilhelm fu fortunato, Bernhard Walter, l’SS che comandava il suo reparto, non era una fanatico come gli altri: nelle braccia di Hitler era finito per scampare a un’esistenza da stuccatore disoccupato. Wilhelm poteva vivere al caldo, mentre vedeva i suoi compagni strisciare nella pioggia e nella neve. «Un giorno riconobbi nella fila del corridoio alcuni miei vicini di casa ebrei. Diedi loro delle sigarette e un pezzo di pane, anche se era vietato».

tratto da: https://www.ilsole24ore.com/art/SoleOnLine4/Tempo%20libero%20e%20Cultura/2009/06/fotografo-Auschwitz_2.shtml

 

 

Occhi

Graziella da molto tempo desiderava visitare la Polonia; il 3 di ottobre ha finalmente realizzato il suo sogno e, ci ha reso partecipi delle sue emozioni con questa toccante testimonianza.

 

In questa terra autunnale piena di bellissimi colori e di luce, il primo giorno del pellegrinaggio inizia con la visita al campo di sterminio di Auschwitz.

I primi passi verso l’entrata del campo, ci riportano con la mente ai passi di quanti erano inconsciamente transitati sotto la famosa scritta “ARBEIT MACHT FREI” il lavoro rende liberi. Stavamo percorrendo la medesima strada, in quel silenzio che tutto raccontava…
La guida con sentimento e decisione ci spiegava quello che era successo nel campo e che ormai tutto il mondo conosceva. Le strade alberate con il sole parlavano di luce e di vita, invece lì era passata la morte, una morte devastante. Sembrava inconcepibile quello che raccontava la guida: come l’uomo si creda padrone del mondo, della vita, di poter gestire la vita degli altri esseri umani, l’onnipotenza umana. Entrando nella palazzina n.11 si trovano alcuni ricordi degli ebrei sterminati, loro entravano ma non sapevano che non ne sarebbero piu’ usciti. Ci ha colpito particolarmente una parete con le foto di quelli che erano rinchiusi lì: schedati, i loro visi tutti diversi ma tra loro in comune oltre alla magrezza, c’erano gli occhi. Occhi che parlavano dell’orrore che stavano vivendo. In fondo all’orbita l’orrore, lo stupore, l’incredulità, la richiesta di aiuto… non avevano piu’ nulla a che fare con la dignità dell’essere umano.
Occhi che avevamo visto la mattina nella mostra di Marian, un sopravvissuto. Dopo tanti anni, ormai anziano, Marian aveva trovato il coraggio di disegnare, scrivere l’orrore vissuto.
I suoi disegni evidenziano subito gli occhi dei prigionieri, di lui giovane e delle scene del quotidiano orrore.
Occhi che parlavano della loro anima e questi occhi li abbiamo ritrovati nelle foto del campo. Tutti uguali, infiniti, muti, increduli.
Una foto in particolare – ci indica la guida – un sacerdote salesiano di nome Józef Kowalski dichiarato beato dalla Chiesa. Anche lui, come San Massimiliano Kolbe, ha continuato a pregare nella sua cella e quando lo hanno scoperto non ha voluto calpestare la corona del rosario ed e’ stato soffocato negli escrementi.
Questo ci ha fatto prendere coscienza di quanto l’uomo può accanirsi verso un altro suo simile per futili motivi.


Ed è un’ esperienza da condividere per non dimenticare e guardare il tuo prossimo come te stesso.

Silenzio e preghiera

Padre Raffaele di Muro, Presidente della M.I. International, reduce dall’incontro dei Volontari dell’Immacolata Padre Kolbe, che si è tenuto a Harmeze (presso Auschwitz), dal 13 al 18 luglio 2017, ha rilasciato un suo pensiero dopo essere stato a visitare insieme ai partecipanti VIPK i luoghi del martirio di padre Kolbe.

Come accade ormai da tempo, ho avuto la gioia di accompagnare i fratelli in questi posti terribili, nei quali, però, ha trionfato l’amore grazie alla testimonianza di S.Massimiliano. È stato molto commovente sostare in raccoglimento nella cella del blocco 11 in cui Kolbe ha dato la vita, mente i volontari deponevano un fiore. Solo il silenzio poteva aiutare a vivere quel momento così altamente contemplativo. Solo la commozione poteva sottolineare il dolore che in quel luogo Kolbe e i suoi compagni hanno sperimentato.
La visita orante al muro della morte o delle fucilazioni e alla piazza dell’appello hanno completato un passaggio importante da parte dei Volontari, che hanno fatto esperienza di come l’amore può vincere anche tra la barbarie dell’uomo e in posti in cui regnano odio e disperazione. Anche questa volta Kolbe ha fatto scuola, anche questa volta al dolore si è sostituita la certezza che vivendo nella carità del Signore e dell’Immacolata non c’è luogo o tempo che non possa trasformarsi in amore.

p. Raffaele Di Muro

 

 

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Auschwitz e Birkenau: perché?

La testimonianza di Anna – missionaria – le sue domande, le sue emozioni, le sue preghiere, i suoi ricordi della guerra civile in Argentina.

Auschwitz e Birkenau, un binomio che da subito fa nascere una domanda: perché? Un binomio che non sarebbe dovuto mai esistere. Campi di concentramento, guerra… parole e fatti che risuonano da anni nella mia testa e nel mio cuore e immediatamente torno alla mia infanzia, in Argentina, al terrore della guerra vissuta dalla mia famiglia, le paure, i desaparecidos, i dialoghi sussurrati in famiglia, le nostre domande di bambini. Ero piccola (3/5 anni) ma in me è rimasto impresso il dolore, la tristezza, il terrore. Ricordo poi che quando qualcosa non mi piaceva dicevo “non la voglio, ha il gusto della guerra”. 

Non volevo viaggiare quest’anno, l’Europa era lontana, però era da tempo che chiedevo a Dio di poter visitare un giorno i campi di concentramento e, finalmente, lo scorso mese di giugno si è avverato questo desiderio.

No, non potevo crederci: mi resi conto che era molto poco, molto povero, minuscolo quello che sapevo; ad ogni passo, a ogni parola della guida, rimanevo meravigliata per il male di alcuni e la sofferenza di altri. Mi veniva voglia di piangere, gridare la mia impotenza, mettermi in ginocchio, baciare quella terra e pregare? Mentre camminavo ripetevo: “Dio mio, perché?”. Che cosa sarà passato nella mente di quelle persone: non avevano famiglia, madri, spose, figli? Come potevano distruggere degli uomini senza pietà? Erano persone intelligenti; sono rimasta infatti sorpresa dalla perfetta organizzazione dei campi, però tutto era stato usato per la distruzione. Mi sono rimasti impressi i pali dei castighi, i forni crematori, il muro della fucilazione, le celle della morte…

Un mattino presto ci siamo recate ad Auschwitz, siamo rimaste lì in preghiera nella cella dove padre Kolbe ha donato la sua vita. Non avevo voglia di andare via, sarei rimasta, ero serena, sorpresa, finalmente il sogno si realizzava; stringendo quelle sbarre sentivo Massimiliano molto vicino, lui che ha illuminato quelle tenebre con la luce del perdono e dell’amore. Ho sentito il bisogno di pregare per le vittime ma anche per gli aguzzini, sopraffatti e distrutti dall’odio. Mi sembrava quasi di udire i passi di padre Kolbe mentre andava a morire in quella cella, “tac tac”, con fiducia, con serenità, per offrire la sua vita e lasciandoci così questa grande testimonianza di amore.

Anna Gentile  

Con ago e filo… ovvero la speranza non muore

La prima parola che viene in mente guardando questa foto è gioia!  

Suor Rosemary Nyirumbe, delle Suore del Sacro Cuore, viene dall’Uganda, ed è molto conosciuta negli Stati Uniti. Ogni giorno accoglie e si mette a fianco delle ex bambine soldato nell’Uganda del Nord – ragazze schiave sessuali di miliziani senza scrupolo –  ha fondato diversi orfanotrofi e case d’accoglienza ridando dignità a coloro che l’aveva perduta e si sentivano per questo scartate dalla società e dalle stesse famiglie di origine. La speranza non deve mai morire… La sua toccante testimonianza viene raccontata nel libro: Cucire la speranza. La donna che ridà dignità alle bambine soldato. Per queste sue opere caritatevoli ha ricevuto da poco in Polonia il premio Veritatis Splendor. In settembre è stata invitata alla “festa del grazie” organizzata dall’AIPK Onlus a Borgonuovo (BO). In questa occasione ci ha raccontato la sua esperienza nel campo di Auschwitz.

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Ero in Polonia per ritirare il Premio Giovanni Paolo II, istituito dalla diocesi di Cracovia.Lì mi hanno proposto di vedere Auschwitz. È stato un grande viaggio spirituale per me,vissuto molto intensamente e che non immaginavo.In quel momento, pur conoscendo san Massimiliano Kolbe, non avevo collegato il campo con la sua cella. Quando però sono andata e mi sono trovata accanto alla cella in cui ha donato la sua vita, allora ho capito il dono che stavo ricevendo. Allora mi sono fermata e ho cominciato a pregare. La preghiera che tornava alla mia mente era quella di continuare a recitare questa invocazione: “Signore abbi pietà di noi”.

dsc_7136Ho pensato, guardando quei muri e quella cella, che tutto questo è accaduto quando Gesù è già morto per noi. Allora se è successo una volta, può ripetersi. Anche se è un fatto storico avvenuto 70 anni fa, l’ho sentito molto vivo e presente e l’ho abbinato nella mia mente a quanto sta accadendo in diverse parti dell’Uganda, da dove provengo. Gli esseri umani possono distruggersi l’un l’altro. Non ho foto mie nel campo. Appena entrata infatti ho scattato una foto che riportava i numeri incredibili delle vittime. E dopo non ho avuto più il cuore per fotografare e ho continuato il cammino pregando. Dal giorno in cui sono stata nella cella di san Massimiliano, ho cominciato a invocarlo:20161110_210124

San Massimiliano Kolbe, prega per me,

prega per noi, fa’ che siamo perdonati.

lasciarsi condurre

Dal libro: “La sofferenza in San Massimiliano Kolbe” di Raffaele di Muro


SOFFERENZA IN SAN MASSIMILIANO KOLBE0001
Nell’esperienza spirituale di san Massimiliano il frutto più significativo ed evidente del suo costante e convinto porsi nelle mani dell’Immacolata è rappresentato dal modo sereno con cui affronta la morte e dalla pace che infonde negli altri nove condannati e reclusi nel bunker della fame e della sete. A tal proposito un testimone racconta che nella cella della disperazione si odono canti alla Madonna. Le guardie rimangono sorprese, perché da quel luogo sono solite ascoltare imprecazioni e bestemmie. Dopo molti giorni di prigionia e di digiuno solo Massimiliano rimane in vita, al punto che c’è bisogno di un’iniezione letale per ucciderlo. Chi è presente all’esecuzione testimonia i tratti sereni del suo volto, che incanta e sorprende i killers. E’ lui stesso,prima di addormentarsi, ad abbandonarsi tra le braccia della sua Mamma celeste, Colei alla quale ha affidato, ormai, da sempre, le chiavi del suo cuore.

E’ il trionfo dell’amore! Si tratta di un vero e proprio miracolo, perché l’offerta generosa, pacifica ed esemplare del frate polacco avviene in un posto terribile, ordinariamente terra di odio e di cattiveria. Questo prodigio di carità è possibile quando il credente si lascia guidare ed illuminare dall’esempio, dalla protezione e dalla benevolenza di Maria. A questo genere di atti eroici porta il quotidiano lasciarsi condurre dalla Madre di Dio.

La non violenza ad Auschwitz

dal Diario di: Etty Hillesum 1941-1943 giovane ebrea olandese che venne deportata ad Auschwitz nel mese di settembre del 1943. Dal vagone piombato riuscì a gettare una  cartolina, che venne poi raccolta e spedita da un contadino: Abbiamo lasciato il campo  (di smistamento di Westerbork) cantando“.


Mio Dio, sono tempi tanto angosciosi. Stanotte per la prima volta ero sveglia al buio con gli occhi che mi bruciavano, davanti a me passavano immagini  su immagini di dolore umano. Ti prometto una cosa, Dio, soltanto una piccola cosa:
cercherò di non appesantire l’oggi con i pesi delle mie preoccupazioni per il
domani, ma anche questo richiede una certa esperienza. Ogni giorno ha già la
sua parte. Cercherò di aiutarti affinché tu non venga distrutto dentro di me, ma a priori non posso prometterti nulla. Una cosa, però, diventa sempre più evidente per me, e cioè che tu non puoi aiutare noi, ma che siamo noi a dover aiutare te, e in questo modo aiutiamo noi stessi. L’unica cosa che possiamo salvare in questi
tempi, e anche l’unica che veramente conti, è un piccolo pezzetto di te in noi
stessi, mio Dio. E forse possiamo anche contribuire a disseppellirti dai cuori devastati di altri uomini. 
Dimenticano che non si può essere nelle grinfie di nessuno se si è nelle tue braccia. Comincio a sentirmi un po’ più tranquilla, mio Dio, dopo questa conversazione con te.

Discorrerò con te molto spesso, d’ora innanzi, e in  questo modo  ti impedirò di abbandonarmi.  Con me vivrai anche tempi magri,mio Dio, tempi scarsamente alimentati dalla mia povera fiducia; ma credimi, io continuerò a lavorare per te e a esserti fedele e non ti caccerò via dal mio
territorio.  

                 Per il dolore grande ed eroico ho abbastanza forza, mio Dio,                      ma sono piuttosto le mille piccole preoccupazioni quotidiane a saltarmi addosso   e a mordermi  come altrettanti  parassiti.   Be, allora mi gratto disperatamente       per un po’ e ripeto ogni giorno:  per oggi sei a posto,  le pareti protettive di una casa ospitale ti scivolano sulle spalle come un abito che hai portato spesso e che ti è diventato famigliare, anche di cibo ce n’è a sufficienza per oggi, e il tuo letto con le lenzuola bianche e con le sue calde coperte è ancora lì,      pronto per la notte e dunque, oggi non hai diritto  di perdere neanche un attimo della tua energia in piccole preoccupazioni materiali.  Usa e impiega bene ogni minuto di questa giornata         e rendila fruttuosa, fanne un’altra         salda pietra su cui possa ancora reggersi il nostro povero e angoscioso futuro.        Il gelsomino dietro casa è completamente sciupato dalla pioggia e dalle tempeste  di questi ultimi giorni, i suoi fiori bianchi galleggiano qua  e là sulle pozzanghere scure e melmose che si sono formate sul tetto basso       del garage. Ma da qualche parte dentro di me esso continua a fiorire indisturbato, esuberante e tenero come sempre e spande il suo profumo tutt’intorno alla tua casa, mio Dio.  Vedi come ti tratto bene. Non ti porto soltanto le mie lacrime e le mie paure, ma ti porto persino in questa domenica mattina grigia e tempestosa, un gelsomino profumato. Ti porterò tutti i fiori che incontro sul mio cammino e sono veramente tanti.
              Voglio che tu stia bene con me.     

E tanto per fare un esempio:  se io mi ritrovassi  richiusa in una cella stretta e vedessi passare una nuvola davanti alla piccola inferriata, allora ti porterei quella nuvola, mio Dio, sempre che ne abbia ancora la forza”. 

Una luce nel buio dei cuori

Testimonianza di Francesca Martinelli, ospite estiva delle missionarie della comunità di Harmeze in Polonia.

E’ stato un dono grande e inaspettato che il Signore mi ha fatto, perché questa esperienza oltre ad essere stata bellissima, mi ha permesso di riflettere su alcuni aspetti del mio cammino. Nei momenti di preghiera ho chiesto a san Massimiliano di aiutarmi a capire cosa significa offrire la propria vita fino al punto di andare a morire al posto di uno sconosciuto. E ho capito ciò solo quando ho visitato il campo di sterminio di Auschwitz – Birkenau e ascoltato delle torture subite dai prigionieri, ho visto l’opera di spersonalizzazione operata sulle menti e i corpi con lucida e sistematica crudeltà. Opera che portava il prigioniero a cadere nello stato più basso di degrado psicologico e morale fino a perdere ogni connotato di umanità e dignità. Ho compreso allora tutta la forza di quel gesto di offerta. Lì dove le persone diventano bestie e cadono in una spirale di violenza e di lotta alla sopravvivenza, il gesto di san Massimiliano è stata una luce che ha rischiarato il buio dei cuori.

Insieme alle missionarie abbiamo ripercorso la sua via crucis, il momento in cui si è staccato dalla fila degli altri prigionieri dirigendosi verso il comandante delle SS, quei lunghi, interminabili passi, sfidando la paura e il rischio di venire ucciso sul colpo, per chiedere di fare uno scambio, di andare lui a morire al posto di uno dei prigionieri scelti quella mattina per vendicare il torto dell’evasione di un fuggitivo. 14.08.15 Auschwitz (22)Siamo poi entrate nel blocco 11, e percorrendo il lungo corridoio dove si trova il tribunale riservato ai dissidenti politici e a tutti coloro che erano accusati di complottare contro il regime, siamo entrate per qualche minuto nella cella in cui è stato ucciso. Vedere quel bunker di dimensioni così ridotte, dove si prova un angoscia mortale e dove lui invece, senza acqua ne’ cibo, ne’ alcuna fonte di luce, ha continuato a dare forza e coraggio agli altri prigionieri, tenendo desta la speranza con canti e preghiere, mi ha fatto comprendere ancora di più quanto la sua offerta sia stata un atto veramente eroico. In quel luogo di morte in cui ci si dimentica di essere uomini, lui ha invece ricordato che la legge dell’amore è più forte dell’odio. L’odio alimenta altro odio in una spirale senza fine, non genera nulla ma è destinato per sua stessa natura ad autodistruggersi. Solo l’amore è forza creativa.Le ceneri di padre Kolbe sparse dal forno crematorio sono state come “fertilizzante” che ha fatto germogliare semi di santità in ogni parte del mondo, che ha generato per contagio altre anime con la sua stessa sete missionaria.

Allora la vita trova senso solo nella logica di offerta di cui ci parla il suo modo di donarsi fino alla fine: senza sconti, senza misura. Come Dio che non ha annullato il male, l’ha preso su di sé, si è identificato nel dolore di quei prigionieri e ha vissuto nei loro corpi torturati, violati. Chi va in visita ad Auschwitz non può e non deve dimenticare che quel male è un monito per ricordare fino a quali atrocità si può spingere il cuore dell’uomo quando persegue strade di odio e di violenza.Come è scritto in una targa in cui è riportato il pensiero di Primo Levi, lo scrittore ebreo deportato e sopravvissuto ad Auschwitz: “E’ accaduto, perciò può accadere di nuovo, questo è il messaggio più importante che dobbiamo trasmettere”. Auschwitz è come un marchio indelebile impresso nella mente e nella memoria che insegna a tutti noi l’importanza di testimoniare per non dimenticare.Padre Kolbe è stato un testimone autentico di quella speranza che nasce da una vita donata per un ideale. Imparare a donarsi, imparare come si fa a morire per l’altro, è sperimentare già da ora, su questa terra, cos’è l’eternità.