Il ragazzo ebreo che per primo rivelò la verità su Auschwitz

La storia di Walter Rosenberg, meglio conosciuto come Rudolf Vrba – un ragazzo ebreo di circa 20 anni – che nel 1944 fece conoscere per primo, attraverso la sua testimonianza, ciò che avveniva nel segreto dei campi di concentramento nazisti

A lui e al compagno di prigionia Alfred Weltzer si deve infatti il Vrba-Weltzer report, la prima descrizione dettagliata con cifre e particolari di quanto succedeva ad Auschwitz, tutto registrato in prima persona. Fu un testo che segnò una svolta storica: perché, prima di allora, l’Europa sapeva poco o nulla dei campi di concentramento tedeschi. Qualcuno li considerava solo dei luoghi di prigionia, o dei semplici campi di lavoro.

Vrba era nato in Cecoslovacchia da famiglia ebrea: il padre, proprietario di una segheria, non poté fare nulla quando il figlio fu espulso da scuola a causa delle leggi antisemite e quando poi, con lo scoppio della guerra, fu arrestato per la sua fede ebraica: all’inizio andò nel campo di concentramento di Maidanek, in Polonia, dove incontrò un fratello che non avrebbe più rivisto.

Poi finì ad Auschwitz, nel giugno del ’42, pronto per essere impegnato da bracciante agricolo. In quella fase drammatica, Vrba fu a suo modo fortunato: un prigioniero fidato per le SS s’accorse che lui sapeva parlare tedesco, così venne trasferito al Canada, una sezione del campo in cui venivano stipati i beni e i vestiti che venivano requisiti ai prigionieri. Da qui riusciva ad avere accesso anche a del cibo, e rimase nel campo fino all’aprile del ’44.

Dal giugno del ’43, in particolare, era stato mandato a lavorare nell’archivio del campo: da lì riusciva a registrare nomi e numeri, poteva parlare con molti prigionieri e vedere i camion che portavano via i morti dalle camere a gas. Quando seppe che nello stesso campo c’era Weltzer, suo vecchio amico, i due architettarono una fuga rocambolesca: si nascosero dietro a pile di tronchi tagliati, coprirono le proprie tracce odorose seminando tabacco intriso di petrolio così da sviare la ricerca dei cani. Dopo tre settimane di fuga a piedi, finalmente, riuscirono a varcare il confine tra Polonia e Slovacchia.

E lì cominciò la storia del loro report.

 

tratto da: http://www.bergamopost.it/chi-e/ragazzo-ebreo-sopravvissuto-per-rivelo-verita-sui-campi-concentramento/

Il deportato bambino di Auschwitz

Bogdan Bartnikowski, polacco, sopravvissuto all’Olocausto era adolescente quando venne deportato nel campo di concentramento di Auschwitz. E’ autore di: “Infanzia dietro il filo spinato”, un libro che lascia un qualcosa nell’animo di diverso, non è solo un libro che racconta disumanità. Bodgan non ha mai smesso di pensare che oltre quel male e quella tragedia ci fosse ancora una speranza, ha avuto il coraggio di credere in queste piccole cose senza perdere mai la fiducia, come racconta nel suo blog Arianna Cordori.

 

Sopra la giacca indossa ancora un cartellino che lo identifica con nome, cognome e numero: Bogdan Bartnikowski era stato registrato ad Auschwitz  come prigioniero 192731.  

«È una giornata speciale – ha detto -. Proprio oggi, nel 1945, uscivo dal campo. Allora, quando si parlava di libertà, si intendeva solo quella conquistata attraverso i camini delle camere a gas. Per me è diverso: sono uscito dal cancello del lager tenendo per mano mia madre».

«Non provo alcun rancore per le nuove generazioni di tedeschi, in fondo loro non c’entrano nulla. È però attraverso il ricordo che non si ripetono gli errori».

Bartnikowski venne infatti deportato all’età di 12 anni durante l’insurrezione di Varsavia del ’44. «Si pensava di scappare, ma senza conoscere alla perfezione il campo era impossibile – ha proseguito -.  La fede? Ero troppo piccolo per capire. Quando Papa Giovanni Paolo II ha visitato Auschwitz si è però chiesto dove fosse Dio in quei giorni. Io rispondo che era in noi e continuare a crederci ci rendeva uomini pensanti».

intervista tratta da: http://www.lastampa.it/2017/01/12/edizioni/novara/la-testimonianza-agli-studenti-sono-stato-bambino-nel-campo-di-auschwitz-rVq3jGgwiljaRFU20phOBM/pagina.html

Il dolore tra le note

Spesso canticchiamo “La canzone del bambino nel vento” di Guccini e ne leggiamo le parole per i più svariati motivi, ma ci siamo mai soffermati sul testo a riflettere? Nel 2006 hanno pensato di farlo i ragazzi delle classi 5A e 5B dell’ Istituto Comprensivo Statale “Antonio Gramsci” per conoscere e non dimenticare verità realmente accadute.


Di chi parla la canzone?
In questa canzone il protagonista è un bambino, probabilmente ebreo.

– Il protagonista dove si trova e perché si trova in quel luogo?
Il protagonista si trova in uno dei più grandi campi di sterminio: Auschwitz. È stato deportato in quel luogo perché era considerato di razza inferiore e ha subito la sorte di tutte le persone ritenute non degne di vivere.

– Cosa è successo al protagonista?
Il bambino è stato ucciso tramite le camere a gas e poi è stato cremato nei forni ed è salito, sotto forma di fumo, attraverso un camino, su nel cielo dove riposerà serenamente per sempre.

– Guccini come descrive l’ ambiente dove si trova il protagonista?
Guccini descrive Auschwitz, in inverno, come il posto più triste che esista, facendoci capire che, nella stagione fredda e il cielo grigio, il campo di concentramento è ancor più cupo di quanto si possa immaginare.-

– Cosa regna in quel luogo e perché è così strano che regni …?
In questo luogo, pur essendoci molte persone, c’era un gran silenzio perché vi era la paura di subire la stessa sorte di altri, la tristezza negli animi e il dolore nel cuore.

– Qual è il significato del seguente verso: “Non ho imparato a sorridere qui nel vento”?
In questa canzone uno dei versi più significativi è: “Non ho imparato a sorridere qui nel vento”; con questa triste frase il bambino vuole farci capire che anche se il vento lo ha accolto e lo ha portato su nel cielo, tutto ciò che aveva dovuto subire sulla terra, solo perché era considerato diverso, rimarrà nel suo cuore per sempre.

– Qual è la terribile domanda che si pone il protagonista?
Il protagonista si pone una domanda che purtroppo anche ai giorni nostri esiste: come può un uomo uccidere un suo fratello.

– Come spieghi questi versi: “Ancora tuona il cannone” – “Ancora non è contenta di sangue la bestia umana”?
In questa canzone l’uomo è paragonato prima ad un cannone e poi ad una bestia, nella prima situazione l’uomo è una macchina congegnata per uccidere, mentre nella seconda l’uomo è un animale che uccide tutto ciò che intralcia il suo cammino.

– Alla fine della canzone, cosa si chiede il protagonista?
Alla fine della canzone il protagonista si chiede quando un uomo potrà vivere senza ammazzare e così il vento si poserà.

– Perché è tanto importante che il vento si “posi”?
Quando si poserà il vento significherà che esso non dovrà più trasportare le anime delle persone morte verso il cielo e soffierà solo sugli alberi in autunno e nei campi in primavera.

Tratto da: http://www.scuolalodivecchio.it/shoah/note.html

E’ accaduto prima, dopo…

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“E’ accaduto prima. Dopo. Più vicino. Più lontano. E’ accaduto non a te.

Ti sei salvato perché eri il primo. Ti sei salvato perché eri l’ultimo”.

Wislawa Szymborska

 

 

 

 

 

Cosa possiamo fare, noi ragazzi del 2005?”.

Cosa potete fare? Cari ragazzi, esattamente quello che avete fatto.

Avete voluto conoscere, sapere, comprendere.

Avete ascoltato quasi in religioso silenzio.

Avete incalzato la ricerca con le vostre domande.

Avete raccolto tutto il materiale con una premura delicata e, al tempo stesso, decisa, ferma.

Avete voluto insomma conoscere la verità: ora tocca a voi difenderla e sostenerla per far sì che fatti di una simile ferocia non debbano mai più ripresentarsi nel proseguo della storia dell’umanità.

Il mio augurio è che possiate fare la vostra parte nel condurre questo vostro mondo finalmente alla pace e di garantirla a lungo.

Un abbraccio.

Woroncow

tratto da:http://docplayer.it/4333553-Nel-bosco-delle-betulle-in-attesa-di-entrare-nelle-camere-a-gas.html

 

Ho scelto di lavorare all’ombra del camino

Arrivano alla spicciolata la mattina presto, imbacuccati nelle loro giacche a vento in questo gennaiIMG_0032o nemmeno così freddo per ora, anche se qui in Polonia le strade sono già imbiancate. Passano dal retro, superano un cancello con una sbarra abbassata per l’entrata degli autoveicoli e si dirigono verso gli edifici in mattoni rossi. Camminando, sfilano accanto a una tozza ciminiera: è il crematorio di una camera a gas. Qualche metro più avanti la porta di ingresso agli uffici: sono i Blocchi di un lager e loro sono le persone che hanno scelto di lavorare “all’ombra del camino” ad Auschwitz, in quello che fu il campo di concentramento diventato simbolo in tutto il mondo dello sterminio perpetrato dai nazisti e della Shoah…  Tra coloro che lavorano all’interno dell’ex campo di concentramento si alternano poco meno di 300 guide-educatori (ogni giorno ce ne sono a disposizione circa 100) che fanno da ponte tra la Storia narrata dai luoghi e dai reperti conservati qui e le storie dei sopravvissuti che ancora tornano in questi posti. Guide che, con i racconti e le spiegazioni, svolgono a loro volta un lavoro di testimonianza, inquadrando il contesto e tramandando la Memoria della Shoah alle future generazioni. “Perché anche i luoghi sono delle fonti, ma ovviamente non parlano da soli”, ci spiega Jadwiga Pinderska-Lech, responsabile delle pubblicazioni del Museo, che accompagna anche i gruppi italiani. “Se uno entra per esempio a Birkenau, vede i binari, vede i chilometri della recinzione, tante baracche, le macerie delle camere a gas… ma se viene impreparato capisce pochissime cose. La possibilità di ritrovarsi qua e poter riflettere qualche minuto secondo me è molto importante e spinge le persone a cercare di più, a leggere di più e a conoscere meglio la storia di Auschwitz”.

I candidati vengono scelti in base ai loro studi, poi sostengono tre prove e se promossi, dopo aver ottenuto il permesso del Presidente della Regione, possono cominciare a lavorare. La loro denominazione esatta da qualche tempo non è più “guida”, ma “educatore”. Al Museo di Auschwitz-Birkenau le visite guidate sono obbligatorie per tutti i gruppi organizzati, la grande maggioranza tra coloro che arrivano in pullman ai tornelli di ingresso. La tradizione di accompagnare i visitatori all’interno del campo è di lunga data, è cominciata nel 1947: “Le prime guide qui erano proprio i sopravvissuti – spiega Andrzej Kacorzyk, vicedirettore del Museo – tante persone che ora lo fanno sono legate ‘emozionalmente’ a questa consuetudine, perché sono figli o nipoti degli ex deportati o di quelli che lavoravano qui negli anni ’40-’50-’60”. Molti tra gli educatori hanno scelto di essere qui per vicende legate alla propria storia, come Malgorzata Domzal (che gli italiani che accompagna chiamano Margherita): “Metà della mia famiglia è stata uccisa qua, anche mio nonno, fucilato al Muro della Morte perché membro della resistenza”. Tutti si sentono investiti della missione e del dovere di trasmettere la Memoria per far sì che nulla sia dimenticato: “Mi sento come obbligata a gridare ad alta voce tutto quello che è successo”, spiega ancora Margherita…

Reportage tratto dal Corriere della Sera