Il Treno della Memoria

Anche quest’anno è arrivato in Polonia il Treno della memoria. Dal 19 al 21 novembre 480 giovani francesi (4-5 liceo) accompagnati dai loro insegnanti, sono stati accolti in varie strutture e alberghi della città di Oświęcim, una novantina sono stati accolti nel Centro San Massimiliano Kolbe di Harmęże.

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Questa iniziativa (giunta alla sua undicesima edizione), è nata dall’idea dei francesi Martine Querrette e da Jean Dujardin (morto nel marzo di quest’anno). Dujardin, teologo, ha lavorato molto per il dialogo tra cristiani ed ebrei.  L`iniziativa del Treno della Memoria è sempre molto importante, permette ai giovani di rendersi conto dal vivo di quanto hanno sempre appreso solo dai loro insegnanti o dai testi scolastici.

Il Treno ripercorre la stessa strada dei trasporti al tempo della Shoah, dei deportati ad Auschwitz; i giovani sono scesi alla stessa stazione di Oświęcim (Auschwitz in tedesco). Dal nostro Centro di Harmęże poi sono andati a piedi  a Birkenau (esattamente come facevano i prigionieri tornando da Harmęże, zona di sotto campo e lavoro forzato al campo base per la notte). Qui hanno visitato le baracche, visto i crematori, la ferrovia che ha accolto tristemente uomini, donne e bambini… Questo viaggio è servito per guardare, ascoltare, riflettere e far risuonare dentro tante emozioni (che uscivano successivamente durante i lavori di gruppo).

Per noi missionarie la cosa più bella è stata una gradita sorpresa: ci hanno chiesto spontaneamente di parlare di Massimiliano Kolbe. Noi non lo avevamo pensato perché il gruppo non era organizzato da noi, inoltre si trattava di scuole, di programmi da seguire di carattere  strettamente  laico; c’erano tra loro anche alcuni giovani mussulmani.  Invece hanno ascoltato con molto interesse, in silenzio; l’insegnante, più tardi, ci ha assicurate che i ragazzi erano rimasti molto colpiti, in molti probabilmente non sapevano niente di Massimiliano Kolbe. La comunicazione, in francese, è stata possibile perché avevamo fra noi  Rosella Lombardi, missionaria  della comunità del Lussemburgo, alla quale rivolgiamo il nostro grazie! Abbiamo lasciato come ricordo la Medaglia Miracolosa alla quale padre Kolbe era molto legato, tutti l’hanno accolta, credenti o meno. I ragazzi sono stati molto contenti dell’esperienza , e anche noi! Vale la pena ricordare insieme, per costruire insieme ogni giorno la pace.

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Il fotografo di Auschwitz

Il fotografo di Auschwitz: Wilhelm Brasse da giovane ha guardato negli occhi la morte ed ora è un anziano signore dal sorriso affettuoso e i modi gentili.  

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Mi accoglie sulla soglia della sua modesta casetta nei pressi della cittadina polacca di Żywiec. Un tempo questa era la regione della Slesia, dove ebrei, polacchi e tedeschi convivevano in un intreccio pacifico di lingue e culture sotto la dinastia degli Asburgo. Wilhelm nacque loro suddito nel dicembre di 92 anni fa. Poi venne la grande crisi del ‘29, il padre perse il lavoro e suo figlio non poté finire il ginnasio. La madre lo iscrisse a un corso di fotografia e senza saperlo gli salvò la vita.

Nel 1939 la Germania invase la Polonia, Wilhelm aveva 21 anni e una scelta fatale da compiere. Diventare cittadino del Terzo Reich o rimanere polacco. Optò per la sua Patria e cominciarono le vessazioni. Tentò allora la fuga attraverso il confine con l’Ucraina, ma venne tradito e consegnato ai nazisti. Era la Pasqua del 1940. Passarono quattro mesi di cella, poi dai soldati tedeschi venne un’ultima possibilità. Arruolarsi nella Wehrmacht o partire insieme ad altri quattrocento detenuti verso una prigione sconosciuta. Wilhelm scelse di non combattere per le armate di Hitler e nella notte un treno lo portò ad Auschwitz.
«Picchiandoci con urla selvagge i kapò e le SS ci fecero scendere, ci tolsero i vestiti e ci diedero una divisa a strisce. Da quel giorno diventai un numero, il 3444». Quando Wilhelm arrivò nel lager tutto era ancora in costruzione, ma sul piazzale dell’appello il vicecomandante Karl Fritzsch chiarì subito ai prigionieri cosa li aspettava. «Questo non è un sanatorio. Questo è un campo di concentramento. Qui un ebreo vive due settimane, un pretaccio dura un mese, gli altri prigionieri tre». Aveva detto la verità. «All’inizio venni assegnato al comando costruzione strade. Il primo giorno di lavoro il kapò uccise con un bastone di legno 4 o 5 prigionieri senza motivo. Era così violento che dopo una decina di giorni cercai un altro lavoro». Agli inizi nel lager era ancora possibile muoversi con una certa libertà. «Chiesero se qualcuno voleva un lavoro leggero con cibo extra, io mi presentai subito. Venni assegnato al trasporto cadaveri. Trascinavo un carretto pieno di salme dal blocco ospedaliero al crematorio. Il lavoro era facile, ma non ce la feci a resistere, cambiai ancora finendo in un comando guidato da un kapò tedesco che finalmente non urlava né picchiava». Brasse ancora oggi ricorda tutti i nomi delle persone conosciute ad Auschwitz. Il kapò si chiamava Markus e portava un triangolo nero sulla divisa: per i nazisti era un “asociale”. Perso il lavoro si era arruolato dieci anni nella legione straniera, tornato in Patria venne subito arrestato. «Gli feci da traduttore, poi grazie a lui passai nelle cucine a trasportare pentoloni di patate, infine nel febbraio del ’41 superai una prova come fotografo e venni assegnato al reparto di polizia».Da quel momento e per quattro anni Wilhelm fotografò decine di migliaia di deportati come lui. Per ognuno tre scatti, di fronte, di lato e con il cappello. «Ma non i prigionieri con gli occhi pesti o segni di maltrattamento.

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Wilhelm fu fortunato, Bernhard Walter, l’SS che comandava il suo reparto, non era una fanatico come gli altri: nelle braccia di Hitler era finito per scampare a un’esistenza da stuccatore disoccupato. Wilhelm poteva vivere al caldo, mentre vedeva i suoi compagni strisciare nella pioggia e nella neve. «Un giorno riconobbi nella fila del corridoio alcuni miei vicini di casa ebrei. Diedi loro delle sigarette e un pezzo di pane, anche se era vietato».

tratto da: https://www.ilsole24ore.com/art/SoleOnLine4/Tempo%20libero%20e%20Cultura/2009/06/fotografo-Auschwitz_2.shtml

 

 

Attesa

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Quante persone la notte non dormono e attendono che arrivi l’aurora. Si attende con trepidazione l’arrivo di una persona cara. Una mamma attende con gioia per nove mesi il suo bambino. La vita stessa è, in fondo, per il suo continuo evolversi, un’attesa.

“Il tempo fugge, l’eternità attende”: questa massima è stata scritta su un muro laterale della Chiesa di Wadowice, per cui il giovane Karol Wojtyła poteva leggerla ogni giorno affacciandosi dalla sua finestra di casa. Non sono pochi gli anziani che, con serenità, attendono quel giorno. «Quando il Signore vuole – ci diceva una vecchietta – sono pronta! I miei figli li ho cresciuti bene, non ho altro da desiderare».

Abitando a pochi chilometri da Auschwitz, ci viene spontaneo riandare con la memoria presso la cella della fame, dove Kolbe e gli altri erano rinchiusi. Anche loro avranno vissuto una loro attesa, del tutto particolare. Si saranno proiettati verso il futuro dicendosi che forse il fuggitivo sarebbe stato ritrovato e che quindi sarebbero usciti da lì. Massimiliano li confortava, li invitava ad attendere nella preghiera e, intanto, affioravano tanti ricordi nel suo cuore. Ripensava a sua madre, a quel momento della sua infanzia: «Raimondo, cosa verrà fuori da te?». Agli anni del seminario: «Non so se potrai essere sacerdote – gli aveva detto il rettore – la tua salute è troppo fragile». Quante attese nella sua vita. Fino all’attesa decisiva. Aspettava anche lui che fosse ritrovato il fuggitivo? Forse, in qualche momento, ma senza troppe illusioni. Attendeva allora la fine? Non poteva essere la morte l’attesa di Kolbe perché, come ebbe a dire Giovanni Paolo II, «Kolbe non morì, ma diede la vita!». Lo trovarono seduto, appoggiato alla parete e col viso luminoso, secondo le parole dei testimoni. Una volta ai suoi frati Massimiliano aveva scritto: «Cari figli, nelle difficoltà, nelle tenebre, nelle debolezze, negli scoraggiamenti ricordiamoci che il Paradiso si sta avvicinando! Ogni giorno che passa è un intero giorno in meno di attesa. Coraggio dunque!».

Il Cielo è il desiderio dei santi, l’attesa dei santi! E la vera attesa non è mai passiva, non ci allontana dalla terra, come ci mostra lo stesso Kolbe che è stato un uomo davvero attivo e intraprendente. La sua vita donata per amore è la più bella spiegazione di come si attende il Paradiso!

Le Missionarie di Harmęże, Polonia

http://www.kolbemission.org/cella-amore