Il fotografo di Auschwitz

Il fotografo di Auschwitz: Wilhelm Brasse da giovane ha guardato negli occhi la morte ed ora è un anziano signore dal sorriso affettuoso e i modi gentili.  

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Mi accoglie sulla soglia della sua modesta casetta nei pressi della cittadina polacca di Żywiec. Un tempo questa era la regione della Slesia, dove ebrei, polacchi e tedeschi convivevano in un intreccio pacifico di lingue e culture sotto la dinastia degli Asburgo. Wilhelm nacque loro suddito nel dicembre di 92 anni fa. Poi venne la grande crisi del ‘29, il padre perse il lavoro e suo figlio non poté finire il ginnasio. La madre lo iscrisse a un corso di fotografia e senza saperlo gli salvò la vita.

Nel 1939 la Germania invase la Polonia, Wilhelm aveva 21 anni e una scelta fatale da compiere. Diventare cittadino del Terzo Reich o rimanere polacco. Optò per la sua Patria e cominciarono le vessazioni. Tentò allora la fuga attraverso il confine con l’Ucraina, ma venne tradito e consegnato ai nazisti. Era la Pasqua del 1940. Passarono quattro mesi di cella, poi dai soldati tedeschi venne un’ultima possibilità. Arruolarsi nella Wehrmacht o partire insieme ad altri quattrocento detenuti verso una prigione sconosciuta. Wilhelm scelse di non combattere per le armate di Hitler e nella notte un treno lo portò ad Auschwitz.
«Picchiandoci con urla selvagge i kapò e le SS ci fecero scendere, ci tolsero i vestiti e ci diedero una divisa a strisce. Da quel giorno diventai un numero, il 3444». Quando Wilhelm arrivò nel lager tutto era ancora in costruzione, ma sul piazzale dell’appello il vicecomandante Karl Fritzsch chiarì subito ai prigionieri cosa li aspettava. «Questo non è un sanatorio. Questo è un campo di concentramento. Qui un ebreo vive due settimane, un pretaccio dura un mese, gli altri prigionieri tre». Aveva detto la verità. «All’inizio venni assegnato al comando costruzione strade. Il primo giorno di lavoro il kapò uccise con un bastone di legno 4 o 5 prigionieri senza motivo. Era così violento che dopo una decina di giorni cercai un altro lavoro». Agli inizi nel lager era ancora possibile muoversi con una certa libertà. «Chiesero se qualcuno voleva un lavoro leggero con cibo extra, io mi presentai subito. Venni assegnato al trasporto cadaveri. Trascinavo un carretto pieno di salme dal blocco ospedaliero al crematorio. Il lavoro era facile, ma non ce la feci a resistere, cambiai ancora finendo in un comando guidato da un kapò tedesco che finalmente non urlava né picchiava». Brasse ancora oggi ricorda tutti i nomi delle persone conosciute ad Auschwitz. Il kapò si chiamava Markus e portava un triangolo nero sulla divisa: per i nazisti era un “asociale”. Perso il lavoro si era arruolato dieci anni nella legione straniera, tornato in Patria venne subito arrestato. «Gli feci da traduttore, poi grazie a lui passai nelle cucine a trasportare pentoloni di patate, infine nel febbraio del ’41 superai una prova come fotografo e venni assegnato al reparto di polizia».Da quel momento e per quattro anni Wilhelm fotografò decine di migliaia di deportati come lui. Per ognuno tre scatti, di fronte, di lato e con il cappello. «Ma non i prigionieri con gli occhi pesti o segni di maltrattamento.

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Wilhelm fu fortunato, Bernhard Walter, l’SS che comandava il suo reparto, non era una fanatico come gli altri: nelle braccia di Hitler era finito per scampare a un’esistenza da stuccatore disoccupato. Wilhelm poteva vivere al caldo, mentre vedeva i suoi compagni strisciare nella pioggia e nella neve. «Un giorno riconobbi nella fila del corridoio alcuni miei vicini di casa ebrei. Diedi loro delle sigarette e un pezzo di pane, anche se era vietato».

tratto da: https://www.ilsole24ore.com/art/SoleOnLine4/Tempo%20libero%20e%20Cultura/2009/06/fotografo-Auschwitz_2.shtml

 

 

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