Pellegrinaggi in Polonia

Per chi desidera incontrare Massimiliano Kolbe, Giovanni Paolo II, Faustina Kowalska e Edith Stein nella terra dove hanno vissuto e dato la vita. Ne vale la pena!

“Non so bene che cosa mi aspettavo prima della partenza per questo viaggio in terra polacca. Sapevo che non sarebbe stato un semplice girovagare fra paesaggi naturali e siti religiosi, ma non immaginavo nemmeno che avrei portato a casa uno scrigno di emozioni così forti e coinvolgenti…” (Lucia Riva VR settembre 2018)

Locandina_Polonia_2019 Bari

viaggio in Polonia VR

Guarda le foto degli anni passati:

http://www.kolbemission.org/flex/cm/pages/ServeBLOB.php/L/IT/IDPagina/381

http://www.kolbemission.org/cella-amore

Portami ad Auschwitz: la sclerosi non ferma il desiderio

L’ ambulanza dei desideri è un’iniziativa che è presente in Italia da poco meno di due anni, mentre all’estero lo è da da lungo tempo. E’ un progetto che impegna enti privati e volontari per trasformare ogni desiderio in realtà, che sia un giro al parco o, un incontro con un lontano parente o, un viaggio vero e proprio, come quello di Giorgio Foglia, affetto da sclerosi multipla. 

Un “desiderio antico” che ha origine nei più profondi meandri dello spirito e che anche una ‘malattia che scarna il corpo’ è incapace di spegnere: sembra essere questo il significato del viaggio di Giorgio Foglia, protagonista di una storia che parla proprio di quel desiderio realizzato….
Ex imbianchino ormai “forzatamente pensionato”, come lui stesso racconta nel documentario, Giorgio non ha scelto di visitare il celebre campo di concentramento solo per la sua importanza storica ma per le profonde affinità con la propria condizione.  
Il suo è stato innanzitutto un viaggio interiore.  Come i deportati, lui si è solo “trovato nel posto sbagliato al momento sbagliato. Non ho fatto nulla per meritare questo. Non ho stuprato, ucciso, rubato… mmh, forse rubato sì, ma non cose importanti, dai!”, scherza. Parlando della sclerosi multipla che lo affligge, Giorgio la paragona a una prigione, una “corazza che mi intrappola, una non-presenza. Ogni giorno sento che qualcosa scivola via senza che io possa fare nulla”.
Parole sofferenti, pronunciate con malinconia, eppure con occhi vividi . È con una sottile ironia, questa capacità di non abbattersi e scherzare sulla propria condizione, che la forza di Giorgio è esternata. La sua come quella della sua famiglia. Molto toccante nel documentario la scena dello scambio della sigaretta (la ‘paglia’) tra padre e figlio.
Ma no papà, tu non sei in prigione. Non più.”   “Lo sono Alberto. D’altronde è questo il significato, la ragione per cui siamo qui.”  L’idea di realizzare un docu-film sul viaggio è partita da Anmic, come racconta Mariagrazia Villa. “Volevamo dare a Giorgio e ai suoi compagni di viaggio un ricordo speciale di questa esperienza. Abbiamo deciso di condividerlo con la città solo in un secondo momento”.

http://www.parmateneo.it

 

Storie che cambiano il mondo

Ci sono storie che devono essere raccontate. Sono storie che cambiano il mondo: esse hanno il potere, raro e prezioso, di cambiare la vita di chi le racconta e di chi le ascolta. La storia di Irena Sendler è una di queste. E’ una storia un po’ magica, sembra quasi una favola tanto è bella e, tuttavia, è una storia vera.

Irena nacque nel 1910 a Varsavia in Polonia. Quando nel 1939 scoppiò la seconda guerra mondiale, lavorava in un servizio sociale e aveva soltanto 29 anni. Iniziò da subito a proteggere gli amici ebrei a Varsavia. Nel 1940 fu eretto il ghetto e Irena iniziò a entrarvi con vari pretesti: ispezioni per verificare potenziali sintomi di tifo, ispezioni alle tubature d’acqua. I pretesti variavano, ma lo scopo vero no: Irena iniziò a trasportare fuori dal ghetto decine e decine di bambini di tutte le età, per salvarli dalla morte certa che li attendeva. Nascondeva i neonati nelle casse del furgone, i bambini più grandicelli in sacchi di juta. Addestrò il suo cane ad abbaiare quando arrivavano i tedeschi, perché non potessero sentire i pianti disperati dei bambini che venivano separati dai loro genitori. Irena più volte in seguito ebbe a dire che in realtà i veri eroi erano quelle madri e quei padri che decisero di affidarle i loro bambini. La sua libertà di entrare e uscire dal ghetto le permise di convincere i genitori ad affidarle i bambini, affinché si potesse evitare loro la vita di stenti del ghetto con la speranza di poter riunire le famiglie in futuro. Alla fine Irena riuscì a salvare circa 2500 bambini. E’ un numero impressionante. Quanti viaggi avrà fatto per portarne fuori così tanti? Non tutti erano nel ghetto, molti erano anche negli orfanotrofi. Irena li prendeva e forniva loro una nuova identità, li affidava a famiglie e preti cattolici. Questi bambini ora sono adulti e, soprattutto, sono vivi. Ma il sogno di Irena era quello di restituire loro un giorno la famiglia d’origine. Nascose quindi per anni in barattoli di marmellata vuoti i fogli con i nomi delle famiglie d’origine, poi sotterrò i barattoli nel giardino.

Ad un certo punto la Gestapo la catturò. Subì la tortura, le fratturano entrambe le gambe e le braccia. Irena riuscì a non rivelare il suo segreto. La condannarono a morte, ma la resistenza polacca attraverso l’organizzazione clandestina ZEGOTA riuscì a salvarla, corrompendo alcuni soldati tedeschi. Cosi alla fine della guerra questi preziosi barattoli furono recuperati da Irena e utilizzati per ricontattare 2000 bambini. Le loro famiglie erano state sterminate e nella maggioranza dei casi il ricongiungimento non fu possibile.  

Dal 1965 il suo nome fu menzionato nell’elenco del museo Yad Vashem fra i “Giusti tra le Nazioni” e nel 1983 un albero fu piantato nel giardino dello stesso museo in Israele in suo onore…

 

la storia completa nel sito: https://www.linkiesta.it/it/blog-post/2012/06/22/la-vita-in-un-barattolo-irena-sendler-e-il-destino-di-2500-bambini-ebr/8397/

Ripartiamo… dalla Polonia

Tante le testimonianze del viaggio in Polonia di questa estate. Riportiamo solo alcune voci. Nel link la photogallery.

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Tanto avrei da scrivere sul mio pellegrinaggio in Polonia, ma mi limito ad esporre l’essenziale. La speranza e l’amore: accompagnati nel pellegrinaggio da tre grandi santi polacchi e visitando i luoghi della loro vita, in questa terra di grandi tormenti e dolori, tutto mi ha parlato di speranza e di amore. Nei campi di concentramento di Auschwitz e Birkenau, vive testimonianze di immani atrocità, nel mio intimo ho sentito la forza della speranza; nel bunker della morte san Massimiliano Kolbe, a seguito del suo  grande atto d’amore, con la sua presenza, con la sua fede , attraverso la preghiera e i canti ha donato ai fratelli la “speranza”; davanti alla sua cella, sotterranea e così buia,  ho vissuto nel mio intimo sentimenti di speranza, amore e di resurrezione, non di morte. Visitando poi i campi di concentramento e vedendo tutto il male commesso, nel mio cuore ho percepito anche forte e vivo un grande sentimento d’amore: ho subito notato la natura, verde, rigogliosa e bellissima nei campi di Birkenau, proprio dove sono ubicati i forni crematori e dove noi con tanto  raccoglimento abbiamo pregato e meditato la via lucis; mi è balzato subito all’occhio il contrasto tra il male che trasuda dal quel terreno martoriato e la viva presenza dell’amore di Dio che si riscontra nella bellezza della natura proprio in quel luogo, mi sono detta: è l’amore, è la speranza, è Dio che parla che ci dice che alla fine il bene, l’amore vincono sempre. Sono  molto contenta, ringrazio il Signore per le grazie ricevute, per il sapore di “buono” che mi porto ora nel cuore, per le tre perle che mi ha donato e sulle quali mi ritrovo a meditare per migliorarmi. Prima della partenza una mia amica mi ha detto: dal pellegrinaggio con le missionarie si ritorna diversi, rinnovati, al mio rientro l’ho ringraziata e ho confermato quanto lei mi aveva anticipato. Grazie missionarie, grazie Padre Tomasz e ad ogni compagno di viaggio, con tutto il cuore.  Maria Grazia di Verona

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…Voglio dire che sono stata molto contenta del viaggio della compagnia e di voi organizzatrici perché mi ha fatto vedere e apprezzare cose per le quali, sinceramente, non mi sarei unita al viaggio. Il mio unico scopo era Auschwitz lo avrai capito.. infatti ho sofferto un poco di esserci stata così poco tempo.. ci ritornerò certamente. Comunque grazie di tutto veramente e arrivederci.   Maria Angela F.

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Ciao Lucia, grazie a te a Tiziana e alle missionarie polacche per il bel viaggio organizzato molto bene, i posti visitati non si possono scordare. Riguardo ai campi di concentramento bisogna visitarli per capire gli orrori commessi contro un popolo colpevole solo di credere ai propri ideali. Grazie ancora, saluti, Gabriele B.

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E’ stato un viaggio intenso e interessantissimo.  L’accoglienza  veramente splendida. Il gruppo che si è  formato veramente unito e in amicizia, non poteva essere diverso visto i protettori che ci accompagnavano.  Non abbiamo nessuna rimostranze da fare.  Tutto è andato oltre le aspettative. Un grazie particolare alle missionarie che ci hanno accolto, a voi e anche ai compagni di viaggio. Vista la perfetta organizzazione speriamo in altre opportunità. Un saluto e un abbraccio,  Sergio e Marisa S.

 

Guarda la photogallery del viaggio in Polonia 2017

 

Auschwitz-Birkenau Viaggio nella memoria

Per il secondo anno consecutivo una scuola secondaria superiore della Repubblica di San Marino ha organizzato un Viaggio ad Auschwitz-Birkenau, in occasione del settantesimo anniversario della liberazione dei sopravvissuti. La testimonianza di un insegnante che ha accompagnato gli alunni in questo viaggio.

Ripartiamo dalla B rovesciata della scritta ARBEIT:  La visita al lager comincia con la lettura di una frase, apposta sopra il cancello e i fili spinati che danno l’ingresso al campo di sterminio: “Arbeit Macht Frei”. Il lavoro rende liberi, ma nessuno riacquistò la libertà, i prigionieri diventavano liberi solo dopo la morte! Mi è rimasta impressa la storia raccontata da chi materialmente ha scritto questa frase. Il fabbro Jan Liwacz fu deportato ad Auschwitz il 20/06/1940, era il prigioniero numero 1010, oppositore politico polacco non ebreo, ed a lui fu dato l’incarico di costruire la scritta all’ingresso del Campo; ma, per una sommessa rivolta contro i nazisti, saldò la lettera B di ARBEIT al contrario, lettera che ancora oggi è visibile proprio sulla scritta all’entrata del Campo di Auschwitz. La motivazione prossima che ha fatto nascere in noi il desiderio di proporre un viaggio del genere è stato il settantesimo anniversario della liberazione dei sopravvissuti nel gennaio del 1945, che ci ha dato l’occasione – con la fatica del caso (non solo fisica) – di provare a metabolizzare quelle atrocità che in un modo o nell’altro abbiamo letto descritte nei libri di storia. Sarebbe bello leggere le testimonianze dei nostri ragazzi, ma in attesa di quelle, offro la mia. Anche quest’anno, il secondo consecutivo, noi insegnanti di religione abbiamo organizzato il viaggio al campo di sterminio Auschwitz-Birkenau. 

È stato un viaggio particolare, un viaggio nella memoria, in luoghi che trasudano ancora crudeltà da ogni angolo, capaci di spaventare anche da deserti e in cui storia, testimonianze e realtà si incrociano nella mente di chi li visita. Sensazioni ed emozioni fortissime, tanto chiare e indimenticabili per chi le ha vissute in prima persona quanto complicate da trasformare in parole: impossibile trovare un senso, una ragione logica ad una delle più grandi tragedie del Novecento. Auschwitz è davvero uno strano museo; ciò che abbiamo visto in quello spazio, anche i pelapatate, le forbici, le pentole, le posate, i pettini, le valigie stesse in cui i nazisti ordinavano agli ebrei di accumulare fino a 50 chili di bagagli alla partenza verso i lager non sono oggetti come in qualsiasi altro museo. Sono storie, sono persone. Ti scontri con la storia, con un luogo che è esso stesso memoria.I nostri studenti, che hanno accolto la proposta del viaggio (in due anni più di 200 ragazzi), si sono dimostratati di fatto giovani sensibili tanto preparati quanto spontanei. L’anno scorso, primo “esperimento” del viaggio nella memoria, abbiamo organizzato una visita di circa quattro ore; quest’anno ne abbiamo proposta una che ci ha coinvolto per tutta una giornata. Davvero impegnativa dal punto di vista psicologico, ma… ne è valsa la pena. Siamo stati accompagnati da guide assai preparate e molto coinvolgenti: grandi pedagoghi!

articolo tratto da: http://www.superiore.educazione.sm/on-line/home-portale-scuola-superiore/archivio-notizie/articolo41010733.html

 

 

Il lungo viaggio

Le sorelle Andra e Tati Bucci, sopravvissute all’orrore di Auschwitz, sono tornate al campo insieme agli studenti, in occasione di un viaggio-studio organizzato dal Ministero dell’Istruzione in collaborazione con l’Ucei, per ripercorrere i luoghi dell’orrore della loro infanzia – le camere a gas, i crematori, le baracche e il muro delle fucilazioni – e raccontare le tappe dei loro 10 mesi nel campo dell’orrore.

«Entrare ad Auschwitz non è mai facile. Anche se sono passati 70 anni. Quando vedo da lontano la torretta, mi succede ogni volta, comincio a stare male. Ma vengo lo stesso ogni anno. Per non dimenticare. Poi, quando la visita finisce, ricomincio a respirare…

Il ricordo indelebile per entrambe è quello della nonna Rosa, 61 anni, che si mise a piangere e si gettò per terra, aggrappata ai cappotti di questi uomini «altissimi». Implorò i soldati di prendere lei. Di lasciare stare i bambini. Ma fu inutile. I nazisti li portarono via tutti – donne e bambini-, a bordo di un’auto «così grande che sembrava un carro armato». Iniziò un viaggio lungo quasi 1.000 chilometri. In treno, a bordo del convoglio numero 25T. Partirono da Fiume il 29 marzo. Arrivarono ad Auschwitz il 4 aprile. Con una fermata intermedia: laRisiera di San Sabba, il lager vicino a Trieste utilizzato dai nazisti per il transito, la detenzione e l’eliminazione di prigionieri politici e ebrei. Tati e Andra rimasero lì due giorni insieme alla famiglia. Poi il viaggio continuò fino ai lager diventati simbolo della Shoah. Paura? «No, non sapevamo ancora cosa volesse dire avere paura»…

Con la madre ebrea e il papà cattolico, le bambine erano figlie di una «coppia mista»... La strada della salvezza passò infine anche dai gesti della «kapò che si occupava del nostro blocco, che con noi era molto gentile», ricorda Andra. «Un giorno ci prese da parte e, senza spiegare perché, ci disse: “Domani vi chiederanno se volete rivedere la mamma, rispondete di no”. Dicemmo a nostro cugino Sergio di fare la stessa cosa. Ma lui non ci diede retta. Quando effettivamente ci fecero quella domanda, noi ubbidimmo. Lui invece fu portato ad Amburgo. Anche lì venivano fatti esperimenti sui bambini. Poco prima dell’arrivo degli alleati, i nazisti li drogarono, li impiccarono e bruciarono i loro corpi. Non lo vedemmo mai più»…

Rancore? Voglia di vendetta? «Sono sentimenti che non ci appartengono», spiega Andra. La vita è continuata. Il matrimonio. I figli. I nipoti. «Abbiamo avuto il coraggio di tornare ad Auschwitz solo nel 2005. E poi ci siamo venute sempre, anche più volte all’anno.Il 21 gennaio scorso è stata la 23esima». E promettono: «Finché le forze ce lo permetteranno, continueremo a tornare».

Andra e Tati

Il testo completo qui: http://www.corriere.it/reportages/cultura/2014/auschwitz/?refresh_ce-cp