La stella di Andra e Tati

La storia delle sorelle Bucci deportate ad Auschwitz quando avevano 4 e 6 anni viene ora raccontata ai ragazzi con un cartone animato “la stella di Andra e Tati”.

Il loro treno arrivò ad Auschwitz-Birkenau la notte del 4 aprile 1944. La nonna venne uccisa la sera stessa, le bambine, forse scambiate per gemelle perché praticamente identiche, furono indirizzate al Kinderblock insieme al cuginetto. Quando il 27 gennaio 1945 i sovietici entrarono ad Auschwitz, c’erano solo 650 bambini in vita: fra loro Andra e Tatiana, che finirono in Polonia e poi in Inghilterra. La mamma Mira, sopravvissuta anch’essa, era riuscita a ricordare per tutti quegli anni i numeri tatuati sul braccio delle figlie: le bambine si riunirono alla madre nel dicembre 1946.

Qual è il messaggio su cui avete puntato?
La memoria, il fatto che non si deve dimenticare. È lo stesso quando raccontiamo la mafia ai bambini, Falcone e Borsellino molti bambini non sanno chi siano, è una cosa grave. Qualcuno in più saprà che c’è stata la seconda guerra mondiale e avrà forse sentito il termine Shoah, ma non sanno che ci sono stati più di 200mila bambini deportati ad Auschwitz-Birkenau, non sanno cos’è un campo di concentramento, forse qualcuno ha visto qualche spezzone di “La vita è bella”. Noi abbiamo scelto una storia con un lieto fine perché il bambino deve avere un’emozione: è l’insegnante che poi deve portarlo oltre l’emozione. Noi offriamo la matita e il foglio, poi la narrazione può avvenire solo grazie al contributo di insegnanti preparati, per questo è fondamentale che ci sia una attenzione e una preparazione degli insegnanti, affinché la scuola garantisca la memoria.

tratto da: http://www.vita.it/it/article/2018/01/22/la-shoah-dei-bambini-in-un-cartone-animato-la-storia-delle-sorelle-buc/145691/

Lo scambio

“Per sopravvivere alla brutalità, bisogna pensare positivo. Agire. Perché il male trionfi, basta che i giusti non facciano niente”.
L’incredibile storia di Denis Avey, soldato inglese in Egitto che fu fatto prigioniero dai nazisti e portato nel campo vicino ad Auschwitz. Con grande coraggio e sprezzo del pericolo fa uno scambio sostituendosi con un prigioniero ebreo e diventa la matricola 220543 per ben 2 volte.

“I due campi di prigionia erano contigui: il nostro, di soldati inglesi, e quello degli ebrei. Lavoravamo insieme alla costruzione di una fabbrica della IG Farben, che avrebbe prodotto una gomma sintetica indispensabile alla macchina da guerra nazista. Spartivamo gli stenti – undici ore al giorno a spaccarci la schiena – ma non le esecuzioni arbitrarie: quegli uomini ombra con l’uniforme a righe e il volto terreo morivano di continuo, ammazzati a calci e bastonate o stroncati dallo sfinimento. A noi i nazisti consentivano di sopravvivere. La sera, ci scortavano ai rispettivi campi: loro ad Auschwitz III, di cui sapevamo solo – sussurri tra disperati – che era l’inferno in terra. Noi all’E715, dove ci aspettavano baracche e rancio scarso, ma almeno la certezza di arrivare all’indomani”.
“Ero tormentato dal bisogno di sapere di più. Un uomo a righe mi aveva bisbigliato, “Tu che un giorno tornerai a casa, racconta”, e quella supplica mi era entrata nel cervello come un tarlo”.Fu così che Denis Avey escogitò un piano, corruppe prigionieri e Kapò, rischiò la pelle, per entrare ad Auschwitz di sua volontà. Due volte.Un’impresa da pazzi. Il piano richiede settimane, poi lo scambio di persona con Hans, ebreo olandese, «uno dei rari individui di cui mi fidavo, in quell’abisso dove si vendeva un uomo per un tozzo di pane». Accade una sera, finito il lavoro, quando ognuno avanza a fatica, incolonnato, verso il proprio campo: «Ci scambiammo veloci le uniformi: avevo imparato a imitare l’andatura trascinata degli ebrei allo stremo delle forze.
E a suon di sigarette avevo corrotto un Kapò, che finse di non vedere.
Così come due prigionieri che, arrivati ad Auschwitz III, mi accolsero sul loro tavolaccio di legno al posto di Hans. Ci fu il rancho: cavoli marci bolliti con bucce di patate. L’impiccagione di un prigioniero colpevole di essersi mosso lentamente. La musica classica, che l’orchestrina dei prigionieri era costretta a suonare durante le esecuzioni. E ovunque quell’odore dolciastro, raccapricciante: i forni, mi spiegarono i compagni di
Hans. Che intanto, al mio posto nel campo inglese, rischiava la morte solo per una cena un po’ più decente». Il giorno seguente, ognuno al proprio posto. Lo scambio si ripete dopo alcune settimane.
Intanto Denis incontra Ernst, ebreo tedesco che gli bisbiglia di avere una sorella
rifugiata a Birmingham, gli chiede di farle avere sue notizie… Denis riesce
miracolosamente a contattarla inviando una lettera in codice alla propria madre,
che fa da tramite: mesi e mesi dopo le due donne fanno arrivare duecento pacchetti di sigarette. Un tesoro. «Servirono a tenere Ernst in vita ad Auschwitz. E a procurargli un paio di scarpe quando, dopo la disfatta nazista, ci fu la grande marcia tra i ghiacci,per evacuare il campo, e le ombre con l’uniforme a righe si accasciavano una dopo l’altra sulla neve». Ernst Lobethal è morto qualche anno fa in Usa, dopo aver raccontato questa storia in un’intervista.

tratto da: https://ilmiolibro.kataweb.it/recensione/catalogo/3092/luomo-che-entro-ad-auschwitz-volontariamente-per-raccontare-lorrore/

 

Liliana Segre: la memoria contro l’indifferenza

“Coltivare la Memoria è ancora oggi un vaccino prezioso contro l’indifferenza e ci aiuta, in un mondo così pieno di ingiustizie e di sofferenze, a ricordare che ciascuno di noi ha una coscienza e la può usare”. Le prime parole di Liliana Segre, nominata oggi senatrice a vita. Uno stralcio di una sua testimonianza.

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…Come si fa a vivere in queste condizioni? Sopportare tutto questo? Perché l’uomo è fortissimo e questo io l’ho sperimentato. Io ero una ragazzina di 13 anni, non avevo nessuna particolarità, semmai ero una ragazzina viziata, cresciuta in una famiglia che aveva fatto in modo di preservarmi da tutti i problemi della vita; la forza che c’è in ognuno di noi è grandissima, ed è di questa che noi dobbiamo far tesoro. Tutti i ragazzi devono credere in questa forza, perché se loro crederanno di avere questa grandissima forza psichica più che fisica, allora non diranno male di nessuno, della famiglia, della scuola, della società se non riescono a fare qualcosa. Ognuno di noi è un mondo e se si impegna può assolutamente fare della sua vita o un capolavoro o anche una piccola vita normale che se sarà onesta e per bene sarà comunque un capolavoro.

Noi abbiamo scelto la vita: certamente chi ha scelto la vita e soprattutto di non farsi abbattere da queste disgrazie terribili, è stato aiutato a mantenersi con la mente sveglia, perché da quel momento e per mesi il corpo è diventato scheletro, per mesi abbiamo visto morire le nostre compagne, per mesi abbiamo visto calare le nostre forze, abbiamo visto i nostri assassini torturare, fare esperimenti e trattare con un’inumanità che non credevamo possibile al mondo. Abbiamo scelto la vita….

Quando arrivai a Milano, la mia casa era chiusa. Spero che almeno uno di quelli che hanno ascoltato oggi questi ricordi di vita vissuta li imprima nella sua memoria e li trasmetta agli altri, perché quando nessuna delle nostre voci si alzerà a dire «io mi ricordo», ci sia qualcuno che abbia raccolto questo messaggio di vita e faccia sì che 6 milioni di persone non siano morte invano per la sola colpa di essere nate, se no tutto questo potrà avvenire nuovamente, in altre forme, con altri nomi, in altri luoghi, per altri motivi. Ma se ogni tanto qualcuno sarà candela accesa e viva della memoria, la speranza del bene e della pace sarà più forte del fanatismo e dell’odio dei nostri assassini.

Da: www.unive.it

 

NOSTALGIA

Una riflessione delle missionarie che vivono a pochi passi dai campi di concentramento nella terra di Polonia, pagine di diario della loro vita scritte e condivise, in particolare con noi “pellegrini ad Auschwitz”.

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Più passano gli anni più il vissuto fa sì che le esperienze aumentino, è come se dal tino della vita il fermento dell’uva provocasse un profumo nuovo, mai annusato. Adesso poi è inverno e c’è molto silenzio, la neve che cade spesso abbondante attutisce i rumori, le giornate sembrano corte per le poche ore di luce e le immagini di tante esperienze vissute sembrano più presenti, più vicine, risvegliando e facendo sorgere la nostalgia. Un sentimento che non fa molto rumore, proprio come la neve.
Con più consapevolezza emergono i ricordi delle esperienze passate, delle nostre case, delle persone amate, dei diversi luoghi di missione che abbiamo abitato e imparato a conoscere. Essi sono indelebilmente scolpiti dentro di noi, convivono con il nostro quotidiano, sono anche molto più forti di noi, più vivi… Il silenzio che caratterizza questo mese è l’habitat della nostalgia.

Ed è così che facendo il nostro consueto pellegrinaggio mensile verso la cella di san Massimiliano Kolbe, percorrendo i viali spogli e freddi di Auschwitz e sostando ai margini del corridoio del blocco 11, pensiamo a quel silenzio che per molti prigionieri è durato settimane, mesi, forse anni, interrotto solo da grida, di odio o di dolore. Avranno provato nostalgia per le loro famiglie, per i loro paesi d’origine? Oppure sarà stato loro tolto, cancellato, anche quel sentimento così umano, così importante, assieme alla dignità, al loro nome?

Ripensiamo anche a Kolbe, alla sua vita, ai viaggi che lo portavano spesso lontano dalla Polonia, dalla sua famiglia, ci vengono in mente il distacco dalla sua Città dell’Immacolata, l’addio ai frati, i suoi mesi terribili nel campo. Nei suoi scritti emerge spesso il sentimento della nostalgia, assieme però alla fiducia, all’offerta, all’amore.
Ci sembra quasi di sentire la sua voce, la preghiera cantata dell’Ave Maria, “adesso e nell’ora della nostra morte”, la “Salve Regina, Madre di Misericordia”, quella sua costante nostalgia per il Cielo divenuta una strada da percorrere serenamente verso il Paradiso, verso l’abbraccio tanto atteso.

Così anche per noi lo scorrere intenso e a volte lento, nostalgico, della vita diventa oggi, attraverso l’amore, un continuo grazie per il passato, il presente e il futuro, grazie del tempo ricevuto e donato, un pezzetto d’eternità, promessa di felicità.

Le Missionarie di Harmęże, Polonia

Da: La cella dell’amore è sempre aperta