L’ultimo Amen

Una testimonianza che fa venire i brividi quella di Bruno Borgowiec, numero 1.192 ad Auschwitz, il prigioniero interprete che assistette alle ultime ore di vita di Kolbe e dei suoi compagni condannati a morire nel bunker della fame. “Pregavano e cantavano”, ma per chi come noi ha visitato il Campo ed è entrato nella cella non c’erano invece parole, solo un gesto: piegare le ginocchia e chinare il capo.

«Si può dire che la presenza di padre Massimiliano nel bunker fu necessaria per gli altri. Stavano impazzendo al pensiero che non sarebbero più tornati alle loro famiglie, alle loro case, e gridavano e imprecavano per la disperazione. Egli riuscì a pacificarli ed essi iniziarono a rassegnarsi. Con il suo dono di consolazione, prolungo le vite dei condannati, di solito cosi psicologicamente distrutti che morivano in pochi giorni. Per risollevare il loro spirito, li incoraggiava dicendo che il fuggitivo poteva ancora essere ritrovato e che sarebbero stati rilasciati.

Affinché potessero unirsi a lui, pregava ad alta voce. Le porte della cella erano di quercia, e grazie al silenzio e all’acustica, la voce di Kolbe in preghiera si estendeva anche alle altre celle dove i prigionieri potevano udirla bene. Anche questi ultimi si univano a lui. Da allora in poi, ogni giorno, dalla cella dove si trovavano queste povere anime e alla quale si univano le altre celle, si poteva udire la recita delle preghiere, il Rosario, gli inni. Padre Kolbe li guidava e gli altri rispondevano in coro. Poiché queste preghiere e inni risuonavano in ogni parte del bunker, io avevo l’impressione di essere in una chiesa».