Ero arrivata ad Harmęże affaticata e stanca per il lungo viaggio di ventisei ore e non vedevo l’ora di riposare. Ma Marian e sua moglie volevano dare il benvenuto alla missionaria venuta dall’Italia. Ed io, desiderosa di conoscere questi coniugi speciali, volentieri mi sono fermata in loro compagnia. Il volto luminoso di Marian mi fece dimenticare subito la fatica del viaggio. Il nostro incontro è stato soprattutto di sguardi, sorrisi. Si era creata, al di là della lingua polacca che non conoscevo, una certa complicità per una passione condivisa: la Shoah e san Massimiliano Kolbe, testimonianza di luce nell’abisso di orrore di Auschwitz.

Marian Kołodziej, un artista, uno scenografo polacco. In occasione di due visite di san Giovanni Paolo II in patria progettò due altari per le celebrazioni del Pontefice. A diciassette anni fu un partigiano che con i suoi amici scout si oppose all’invasione nazista. Era il 14 giugno 1940 quando fu arrestato e deportato ad Auschwitz con il primo gruppo di 728 prigionieri. Lui diventa il numero 432. Il 29 luglio 1941 è presente all’appello durante il quale il deportato 16.670 (padre Massimiliano Kolbe) si offre per salvare la vita di un altro prigioniero. Sopravvissuto al campo di concentramento e a un ictus, nel 1993 Marian rompe un silenzio durato cinquant’anni per creare un’opera, The Labyrinths, che è un inedito spaccato di Auschwitz visto da dentro. Muore a Danzica il 14 ottobre 2009.
L’opera, in italiano I Labirinti della memoria, è formata da quadri in cui Marian racconta o, come egli stesso dice, «scrive con i disegni» le orribili esperienze vissute per cinque anni nei campi di prigionia. Attraverso una sequenza di immagini e con la sua genialità, Marian ci fa cogliere la vita nei campi di sterminio, conducendo sempre verso un oltre di speranza. Una speranza che ha un nome e un volto: quello di padre Massimiliano Kolbe. Lo considera infatti suo patrono e intercessore. Questi quadri non raccontano solo quello che è accaduto ad Auschwitz, ma raccontano Auschwitz di tutti i tempi, ossia la lotta tra il bene e il male, ben evidenziata dai disegni in bianco e nero. «Questa – ci tiene a sottolineare Marian – non è arte. L’arte è impotente per esprimere quanto l’uomo ha fatto all’altro uomo. Questi non sono quadri. Sono parole racchiuse nei disegni… Vi prego, leggete le mie parole racchiuse nei disegni».
Il prigioniero 432 ha portato i “gassati” nei crematori, ha dormito in piedi nella cella di punizione, è stato messo a morte e salvato da un amico cui aveva regalato una zuppa, ha vissuto interminabili appelli, ha dormito insieme ad altri 7-8 dove ce ne stavano 3, fra escrementi e urina. Finché «sorpreso dalla grazia di Dio, dalla provvidenza, dal destino, sono stato liberato dall’esercito americano, il 6 maggio 1945 ad Ebensee. Pesavo 36 chili». E continua la sua riflessione chiedendosi: «Valeva la pena subire tutto questo?Guardando alla conclusione della mia vita e anche alla conclusione del nostro ventesimo secolo, vedo che, dopo Auschwitz, non solo niente è cambiato sulla terra ma è addirittura peggio… Le stesse leggi del campo governano, ancora, il mondo. I miei disegni sono la mia penitenza. Milioni di tratteggi. Con ogni tratteggio venero e ricordo quei milioni di vittime: i compagni morti e quelli ancora vivi. È attraverso i disegni che recito, per loro, le mie preghiere, il mio vivente “Gorzkie Zale”, per supplicare perdono».
I Labirinti, un’opera grandiosa anche per il numero dei disegni. Quanti? Trecento, quattrocento? Neanche Marian lo sapeva con esattezza. Ai pellegrini di tutto il mondo, in particolare giovani, in visita ai Klisze Pamięci la guida presenta l’opera di Marian interpretandola nell’oggi della nostra vita.
Angela Esposito
Presentazione della Mostra di Marian