A mio fratello

La lettera che Guido Bergamasco, 21 anni, studente ebreo deportato ad Auschwitz, anno 1942 scrisse a suo fratello nel campo di Auschwitz.

Caro fratello, quanto vorrei spedirti questa lettera, ma purtroppo non mi è possibile. Posso solo scriverti, sperando che un giorno, in qualche modo, questo pezzo di carta straccia arrivi in mano tua e tu possa sapere che io sto bene.
Quando arrivi qui, come prima cosa, ti spogliano. Ti portano via i vestiti, l’orologio, i documenti, le foto. Poi ti rasano i capelli, a zero. Li ammassano in grandi mucchi, così fanno anche per le scarpe, i giocattoli dei bambini.
Ti privano di ogni cosa, ogni oggetto, seppur di poco valore, che abbia impresso qualcosa di quello che sei tu, o della persona che eri prima di entrare qui. Lo fanno perché chi è deportato in un campo di concentramento non può avere ricordi, anche il ricordo dei familiari viene schiacciato dall’esigenza di sopravvivere.
Poi consegnano ad ognuno una specie di pigiama, una tuta a righe bianche e blu, che diventerà il tuo unico abito, e infine ti assegnano un numero. 16924, questo è il mio. Sembra impossibile quanta gente sia rinchiusa qua dentro….
Sono ormai 4 mesi e 13 giorni che mi trovo ad Auschwitz, e sono vivo. Forse è solo fortuna oppure qualcuno lassù crede che io sia destinato a sopravvivere e a raccontare questo ai miei figli.
Qui, dove mi trovo, all’entrata c’è una scritta: “Arbeit macht frei” che in tedesco vuol dire “il lavoro rende liberi”. E’ la prima cosa che ho visto quando sono entrato qui e non mi rimane che aggrapparmi a questo, sperare di guadagnarmi la libertà, in qualche modo, lavorando sodo. A volte preferisco pensare che le persone che sono andate a morire è perché non si sono impegnate abbastanza, non hanno lavorato al massimo delle loro capacità. A volte raccontarsi delle piccole bugie aiuta ad andare avanti.
Non voglio lasciare che le fiamme brucino anche la mia Fede, voglio credere, e sperare, perché è tutto quello che mi rimane.
Spero che dovunque ti trovi, tu stia bene.
Ci rivedremo presto, ne sono sicuro.
Ti voglio bene.

tratto da: http://bookblog.salonelibro.it/lettera-di-guido-bergamasco-21-anni-studente-ebreo-deportato-ad-auschwitz-anno-1942/

Lo scambio

“Per sopravvivere alla brutalità, bisogna pensare positivo. Agire. Perché il male trionfi, basta che i giusti non facciano niente”.
L’incredibile storia di Denis Avey, soldato inglese in Egitto che fu fatto prigioniero dai nazisti e portato nel campo vicino ad Auschwitz. Con grande coraggio e sprezzo del pericolo fa uno scambio sostituendosi con un prigioniero ebreo e diventa la matricola 220543 per ben 2 volte.

“I due campi di prigionia erano contigui: il nostro, di soldati inglesi, e quello degli ebrei. Lavoravamo insieme alla costruzione di una fabbrica della IG Farben, che avrebbe prodotto una gomma sintetica indispensabile alla macchina da guerra nazista. Spartivamo gli stenti – undici ore al giorno a spaccarci la schiena – ma non le esecuzioni arbitrarie: quegli uomini ombra con l’uniforme a righe e il volto terreo morivano di continuo, ammazzati a calci e bastonate o stroncati dallo sfinimento. A noi i nazisti consentivano di sopravvivere. La sera, ci scortavano ai rispettivi campi: loro ad Auschwitz III, di cui sapevamo solo – sussurri tra disperati – che era l’inferno in terra. Noi all’E715, dove ci aspettavano baracche e rancio scarso, ma almeno la certezza di arrivare all’indomani”.
“Ero tormentato dal bisogno di sapere di più. Un uomo a righe mi aveva bisbigliato, “Tu che un giorno tornerai a casa, racconta”, e quella supplica mi era entrata nel cervello come un tarlo”.Fu così che Denis Avey escogitò un piano, corruppe prigionieri e Kapò, rischiò la pelle, per entrare ad Auschwitz di sua volontà. Due volte.Un’impresa da pazzi. Il piano richiede settimane, poi lo scambio di persona con Hans, ebreo olandese, «uno dei rari individui di cui mi fidavo, in quell’abisso dove si vendeva un uomo per un tozzo di pane». Accade una sera, finito il lavoro, quando ognuno avanza a fatica, incolonnato, verso il proprio campo: «Ci scambiammo veloci le uniformi: avevo imparato a imitare l’andatura trascinata degli ebrei allo stremo delle forze.
E a suon di sigarette avevo corrotto un Kapò, che finse di non vedere.
Così come due prigionieri che, arrivati ad Auschwitz III, mi accolsero sul loro tavolaccio di legno al posto di Hans. Ci fu il rancho: cavoli marci bolliti con bucce di patate. L’impiccagione di un prigioniero colpevole di essersi mosso lentamente. La musica classica, che l’orchestrina dei prigionieri era costretta a suonare durante le esecuzioni. E ovunque quell’odore dolciastro, raccapricciante: i forni, mi spiegarono i compagni di
Hans. Che intanto, al mio posto nel campo inglese, rischiava la morte solo per una cena un po’ più decente». Il giorno seguente, ognuno al proprio posto. Lo scambio si ripete dopo alcune settimane.
Intanto Denis incontra Ernst, ebreo tedesco che gli bisbiglia di avere una sorella
rifugiata a Birmingham, gli chiede di farle avere sue notizie… Denis riesce
miracolosamente a contattarla inviando una lettera in codice alla propria madre,
che fa da tramite: mesi e mesi dopo le due donne fanno arrivare duecento pacchetti di sigarette. Un tesoro. «Servirono a tenere Ernst in vita ad Auschwitz. E a procurargli un paio di scarpe quando, dopo la disfatta nazista, ci fu la grande marcia tra i ghiacci,per evacuare il campo, e le ombre con l’uniforme a righe si accasciavano una dopo l’altra sulla neve». Ernst Lobethal è morto qualche anno fa in Usa, dopo aver raccontato questa storia in un’intervista.

tratto da: https://ilmiolibro.kataweb.it/recensione/catalogo/3092/luomo-che-entro-ad-auschwitz-volontariamente-per-raccontare-lorrore/

 

La B capovolta di “arbeit macht frei”

Forse non tutti sanno che la frase ARBEIT MACHT FREI è stata scritta  appositamente con un errore di battitura, una B capovolta che indica la libertà e  dignità alfabetica di quel tempo. Il lavoro rende liberi, ma dei tanti prigionieri  internati ad Auschwitz pochi riacquistarono la libertà da vivi, molti furono quelli  che la conquistarono dopo la morte.


«Gli aguzzini volevano imbrogliare le vittime fino all’ultimo. Illudere i morti viventi che sarebbero sopravvissuti. Lavorando. E’ diabolico. Lo slogan è stato posto anche all’entrata di altri campi e nei ghetti. Con lo stesso obiettivo: uno scherzo cinico, demoniaco». È rarissimo che accada, ma può accadere.
Una semplice, povera, trascurata, indifesa lettera alfabetica può, con la sua sola presenza oggettiva e tangibile, rappresentare il miracolo assoluto: l’anelito alla libertà e restituire dignità all’uomo, quando tutto intorno è precipitato nella notte della follia e nell’abisso della morte.
Quando tutto sembra perduto e intorno c’è soltanto l’esiziale ghigno del potere e della forza bestiale, proprio allora da una semplice lettera alfabetica può scaturire la rivolta, la forza estrema della propria coscienza di Uomo.
Questo è accaduto nel 1940, nel campo di sterminio polacco di Auschwitz (Oswiecim in polacco), ad opera di un umile artigiano, un fabbro polacco, prigioniero come altri milioni in quell’inferno assoluto e totalizzante.
Un capo tedesco del campo, Kurt Müller, chiede che venga immediatamente eseguito l’ordine imposto dal comandante Rudolf Höss, che venga cioè realizzata, e innalzata all’ingresso del campo di sterminio, la targa in ferro battuto progettata dallo stesso Müller, con la scritta Arbeit macht frei, il lavoro rende liberi, che i nazisti avevano ripreso, modificandola, da un passo del Vangelo di San Giovanni, Wahrheit macht frei, la verità rende liberi, e che a Höss ricorda i suoi anni di carcere durante il governo di Weimar. Ma Arbeit macht frei è anche il titolo di un romanzo del 1872 dell’etnologo e linguista Lorenz Diefenbach, che mai avrebbe immaginato il terribile uso che altri avrebbero fatto di quel titolo.
Una scritta illusoria e beffarda per coloro che mai avrebbero visto la libertà, morendo a milioni in quei luoghi (“le tre parole della derisione […] sulla porta della schiavitù”, così scrisse Primo Levi ne La Tregua). Della realizzazione viene incaricato un prigioniero, il dissidente politico polacco Jan Liwacz, non ebreo, numero di matricola 1010 tatuato sull’avambraccio, che in un’altra vita faceva il fabbro, entrato nel campo di sterminio il 20 giugno 1940. È lui a dirigere la “Schlosserei”, l’officina interna al campo che fabbricava lampioni, inferriate, sbarre, cancelli. Ebbene al momento di saldare le lettere per comporre la parola Arbeit Liwacz ribalta la B in modo che l’occhiello piccolo risulti in basso rispetto al grande, anziché in alto come la grafica impone. È questo un gesto più piccolo di un granello di sabbia del deserto, ma che in quel contesto terribile e inumano assume all’improvviso la forza e la grandezza dell’urlo di Munch e insieme quello di milioni di vittime innocenti che si ribellano, unite nel gesto umile e semplice di un fabbro. Un grido di libertà con le armi benevoli della grafica, dell’alfabeto, delle lettere.
Nella loro insulsa e bestiale brutalità razzista i nazisti non si accorsero mai che quella semplice B capovolta rappresentava la libertà, la dignità di una moltitudine di perseguitati, e insieme la rivolta simbolica contro la barbarie. Liwacz sopravvisse alla morte e reclamò, giustamente, a liberazione avvenuta la propria opera di ferro, ritornando al proprio villaggio Bystrzyca Klodzka, e dove morirà ottantaduenne.
Alla liberazione del campo il 27 gennaio 1945 ad opera dell’armata rossa, però, la scritta verrà caricata dai sovietici su un treno destinato all’Est. Ma un ex prigioniero del campo, Eugeniusz Nosal, intuendo l’alto valore simbolico della scritta, la scambiò con un soldato sovietico in cambio di una bottiglia di vodka. Sarà nascosta per anni nel municipio di Auschwitz e donata in seguito al Museo fondato sui resti del campo di sterminio.

articolo tratto da: bibliotecadisraele.wordpress.com