Il “nostro” viaggio (3)

Margherita, Mara e Maria, tre amiche, un viaggio fatto insieme nell’estate 2019 alla scoperta di un passato ancora troppo vicino. L’esperienza di Maria.

polonia.jpeg

Essere ospitate dalle missionarie il giorno prima della visita ai campi e successivamente a essa è stata una vera e propria grazia. Il senso di fraternità e l’accoglienza ci hanno preparato con delicatezza e consapevolezza man mano maggiore ad entrare in uno dei momenti più bui della storia recente dell’umanità. Ritrovarle dopo ci ha aiutato a tornare a respirare dopo il macigno che ci è stato messo sul cuore.

Tra le cose che mi hanno colpito di quei giorni ad Auschwitz c’è stato innanzitutto il rispetto e la delicatezza nei racconti della immensa sofferenza e nello stesso tempo anche il riserbo usato anche nel parlare di chi ha agito con tanta violenza e disumanità. Il dolore e il male non devono essere taciuti ma non è buono per nessuno fomentare odio e aggressività. Questo l’ho captato dal modo in cui ci hanno parlato delle varie storie di male e di bene vissute proprio lì a pochi passi e anche dalla giovane guida che ci ha accompagnato nella visita ai campi. Tantissime donne, uomini, bambini sono stati oggetto di comportamenti crudeli: non riesco a credere fossero pienamente consapevoli, ma questo lo sa solo Dio.

La presenza dei frati francescani e delle missionarie in Harmeze è un dono grande per tutti, penso lo sia anche per chi non li incontri direttamente. E’ proprio un posto di missione e come potrebbe non esserlo vivere in un luogo con una storia così carica di dolore ma anche di amore? E’ missione il cercare ogni giorno di trasformare le ferite in feritoie di luce. Questo è un po’ come vivere nelle stimmate di Francesco, con le quali Gesù gli ha donato di provare tutto il Suo dolore e tutto il Suo amore. Per me incontrare lì le missionarie e i frati è stato come sentirmi un po’ a casa, in quanto francescana secolare.

Dal punto di vista strettamente personale, la permanenza a Hermeze e Auschwitz mi ha portato a fare un percorso individuale che è partito dalla mostra di Marian Kolodziej, grazie all’accompagnamento prezioso di una missionaria. Diverse immagini mi hanno colpito e mi sono rimaste impresse. Innanzitutto quelle da cui emerge il percorso di consapevolezza e riconciliazione che Marian ha fatto con il suo passato nel campo, con tanta sofferenza. L’abbraccio tra il Marian ormai anziano e libero e il Marian giovane e prigioniero, ad un livello diverso e sicuramente meno doloroso, è l’abbraccio a cui sono invitata anche io tra la me bambina e/o sofferente e la me adulta e/o serena e pacificata. Verso la fine della mostra Marian ci accompagna poi a fare un altro passo in quanto egli rende fecondo tanto dolore cercando di seminare amore e pace. Mi ha colpito profondamente un disegno che mi si è stampato nella mente: Marian puntando il dito verso chi guarda sembra chiedergli: e tu? Ecco si, io come sono messa con quel puntino nero di male che è nel mio cuore a causa del peccato? Mi occupo di soffocarlo con il bene, coltivo il buono? Quanto spazio lascio alla divisione, alla violenza, alla fredda efficienza, come hanno fatto i nazisti che hanno raccolto anche i capelli dei prigionieri? Quanto consapevolmente vivo e mi guardo attorno, mi preoccupo della sorte degli altri, anche se è scomodo, o mi illudo che il problema sia di altri, che non possa fare niente per aiutare, per denunciare, come hanno fatto tanti contemporanei di Marian che hanno creduto non potesse stare accadendo qualcosa di così orribile o che non “conveniva” intervenire?

La visita ai campi mi ha lasciato la sensazione di un pugno nello stomaco, un peso sul cuore perché come uomini siamo stati capaci di tanta disumanità. Ma anche in tanta brutalità e miseria è un segno certo di speranza conoscere le vite di persone che sono state capaci di donare e spendersi in quella situazione, tante storie di giusti di cui le missionarie fanno tesoro e che diffondono, primo fra tutti Massimiliano Kolbe, che ci indica la strada: amare con tutti noi stessi e amare Gesù negli altri laddove siamo, qualunque posto sia. Se lui lo ha fatto in un campo di sterminio, possiamo farlo anche noi nelle nostre vite comode e regolate.

Una volta tornata a casa, mi è capitato di vedere in TV un servizio proprio sui gerarchi nazisti e sui campi, mi ha sorpreso il fatto che sono rimasta a guardarlo con interesse e che guardando provavo una grande tenerezza. I campi, gli esili corpi dei prigionieri, le storie di vita sconvolta, erano ormai entrati nella mia storia, come se si trattasse di amici, parenti, di cui si conoscono i dolori e le sofferenze, che si sentono ancora più vicini perché in difficoltà. Li conosco, ho intuito quanto hanno sofferto, ho visto dove hanno vissuto, dove e come sono morti, sono persone a me intime.

Maria