Per questo ho vissuto

“Quella mattina, a Rodi, mi ero svegliato come un bambino. La sera mi addormentai come un ebreo”  Sami Modiano

A otto anni Sami Modiano era uno dei bambini più vivaci e brillanti della scuola elementare italiana di Rodi. Forse era in assoluto il primo della classe, come sostenevano i genitori dei suoi compagni, con quell’ammirazione espressa e così insistita da poter sconfinare facilmente nell’invidia. Sì, perché Sami, alunno eccellente, non aveva di sicuro l’aria e il comportamento del secchione. Nuotava, correva, giocava a calcio, scherzava, si divertiva, però a scuola gli bastava studiare il minimo per meritare il massimo.

Quella mattina, quando fu chiamato alla cattedra, si sentiva persino più sicuro e disinvolto del solito. Era pronto a rispondere alle domande del maestro ma il suo sorriso si spense subito perché l’insegnante, invece di interrogarlo, lo guardò come mai lo aveva guardato e gli disse: «Samuel Modiano, sei espulso dalla scuola!». Un ceffone morale umiliante, un vero choc, le gote di Sami si tingono di porpora, la gola si chiude. Con un filo di voce: «Ma che colpa ho?», «Che cosa ho fatto? Dove ho sbagliato?». Per far capire a quel bambino sbigottito e improvvisamente spaventato che non aveva fatto nulla di male, e che quel provvedimento non riguardava né il profitto né la condotta, l’imbarazzato maestro gli pose affettuosamente una mano sul capo e aggiunse a bassa voce: «Ora tornatene a casa, tuo padre ti spiegherà»

La storia del bambino-ebreo di Rodi trafigge il cuore e ferisce l’anima. È una storia che Sami, come quasi tutti i sopravvissuti all’Olocausto, aveva taciuto per quasi tutta la vita perché, nel raccontarla, la sofferenza era come raddoppiata: non bastava l’infarto emotivo della cronaca e dei ricordi incalcellabili delle sofferenze patite; il veleno aggiuntivo era provocato dall’incredulità espressa da molti di coloro che lo ascoltavano. «Guardandoli, sembrava mi volessero dire che non credevano alla mia storia. E questo, ancora una volta, mi feriva a morte». Alla fine, dopo molte titubanze, ha prevalso il dovere: di trasmettere ai giovani la vissuta testimonianza di quello che è stato l’Olocausto, nel cuore dell’Europa colta ed evoluta; e poi di onorare chi fu annientato dall’odio razziale degli aguzzini nazisti.

«Sono vivo grazie a un carico di patate». Chissà quante volte avrà raccontato questo incredibile episodio. «Proprio patate, sissignore! Era infatti arrivato un treno carico di patate, ma non vi erano abbastanza prigionieri per scaricarlo. Era quasi mezzogiorno, e quasi tutti i deportati si trovavano fuori dal campo, al lavoro. Bisognava scaricare le patate in fretta perché un altro treno della morte, carico di ebrei, attendeva il turno per arrivare alla rampa di Birkenau. Io e gli altri candidati al gas ci siamo guardati, stupefatti: non era ancora il momento di morire. Fummo condotti a scaricare le patate, sistemandole a piramide su assi di legno. Alla fine, ci fu un’animata discussione fra due ufficiali nazisti: uno diceva che dovevamo andare al gas subito; l’altro invece – visto che già indossavamo il pigiama a righe e avevamo preso confidenza con le leggi, la disciplina e le punizioni del lager – sostenne che era meglio rimandarci nelle nostre baracche. Per il gas sarebbero stati pronti i passeggeri del treno che stava sopraggiungendo. Prevalse il fanatismo organizzativo del secondo. Per noi, quindi, morte rinviata».

«A Birkenau avevo perso la fede, bestemmiavo il dio che non faceva nulla per impedire quell’atrocità. Poi, Dio l’ho ritrovato. Mi ha fatto sentire la sua presenza anche alla fine di quell’atroce sofferenza…»

tratto da: http://www.focusonisrael.org/2013/01/27/giorno-memoria-sami-modiano-rodi-shoah/

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