La valigia, simbolo del viaggio, di solito rappresenta l’andare e il tornare. Ma non per questa storia, non quelle valigie ammassate nella stanza 4 del blocco 5 di Auschwitz.
Nella stanza numero 4 del blocco 5 c’è un lungo vetro che separa il visitatore da migliaia di valigie ammassate l’una sull’altra. Una montagna di borse vuote, tutte diverse: vecchie, rotte, strette, larghe, rattoppate, di cartone, eleganti, di stoffa, di pelle… Quando si entra in quella stanza, si resta immobili a guardare le valigie. Su tutte ci sono scritti un nome, un cognome e un indirizzo. Ce ne sono di piccole e di grandi. Ma non è la misura della valigia a raccontare se la speranza che trasportava era grande o piccola. Una speranza è una speranza. Punto. E una valigia è il posto giusto per conservarla. Perché c’è spazio per andare, e per tornare. Di solito è così che funziona. Ma non per questa storia, non per quelle valigie. I soldati nazisti rubavano gli Ebrei alle loro case e li portavano via. Alcuni mentre dormivano, altri mentre mangiavano, studiavano, giocavano, suonavano… Dicevano loro che sarebbero stati via a lungo ma che avrebbero fatto ritorno a casa. Per ingannarli facevano preparare loro una borsa per il viaggio, ma se qualcuno chiedeva dove erano diretti, i Tedeschi non rispondevano. Come fai a preparare una valigia se non sai dove stai andando? Non puoi sapere ciò che ti occorrerà. Allora, per non sbagliare, gli Ebrei mettevano un po’ di tutto nella borsa: pentole, giochi, scarpe, bambole, quaderni, violini, vestiti, soldi, spazzole, flauti, pettini, gioielli, carte, fogli, matite, colori, fotografie, diari, coperte, pane… Gli oggetti cari, le cose di tutti i giorni. Quelle stesse che avrebbero rimesso in valigia anche nel viaggio di ritorno, verso casa. Dopo un po’ di tempo avevano iniziato a capire che sarebbe stato difficile, perché nessuno era mai tornato indietro da quel viaggio. Gli Ebrei venivano portati ad Auschwitz in treno. Sul treno morivano in tanti: quel viaggio era pensato per non far tornare a casa nessuno. Eppure, per quella corsa di sola andata, i nazisti facevano pagare un biglietto. Quelli che riuscivano ad arrivare ad Auschwitz scendevano dai treni e trovavano ad aspettarli i nazisti, che li picchiavano e gli urlavano contro. Poi i soldati spingevano i bambini, le donne, i vecchi e gli uomini che non erano abbastanza forti per lavorare in uno stanzone e li facevano spogliare spiegando che avrebbero fatto la doccia. Prima, però, facevano scrivere i loro nomi sulle valigie, così le avrebbero ritrovate…. Non tutti davano credito a quelle promesse, ma scrivevano ugualmente i loro nomi, i cognomi, il luogo di provenienza: ovunque fossero precipitati, volevano che restasse scritto che erano esistiti…
tratto da: Daniela Palumbo – Le valigie di Auschwitz