Helen Lewis, un donna sopravvissuta all’Olocausto grazie alla passione per la danza e alla solidarietà segreta di coloro che tra i carnefici non dimenticarono la propria umanità. Helen è una testimone di fatti degradanti per la persona umana, ma nel suo diario «Il tempo di parlare» non perde mai la compostezza, non grida, non recrimina. Helen, nata a Trutnov, nella ex Cecoslovacchia, fu deportata nel 1942 a Terezin e poi ad Auschwitz.
Dalle prime restrizioni per gli ebrei, all’obbligo di tenere ben cucita sugli abiti la stella gialla, alle persecuzioni, alla deportazione, alla salvezza. Incredula davanti all’organizzazione nazista del terrore. Vede Eichmann, è un uomo dall’aspetto comune, riesce a sfuggire alle selezioni del dottor Mengele; vede i comportamenti aberranti di uomini carnefici. Helen racconta nel diario la quotidianità della vita nel lager, la donna che piange lacrime amare perché le era stato dato meno pane, la fragile SS, con un’espressione di tristezza negli occhi, che la aiutò, i rapporti spesso difficili con le compagne, le amicizie salvatrici. Nella grande devastazione è sempre attenta alle voci umane, alla generosità di alcuni.
Vuole vivere. Con i piedi congelati riesce persino a ballare e a metter su nel lager uno spettacolo il giorno di Natale.
Racconta anche al liberazione con pudore: «Si è aperta la porta ed ecco un soldato russo, giovanissimo e piccolo, che dice semplicemente: “Germani kaput”. Sono corsa verso di lui e gli ho gettato le braccia al collo. Sembrava sorpreso e un po’ imbarazzato. Forse non si rendeva conto di essere il mio liberatore».
Helen è morta all’età di 93 anni. Come molte altre donne tra le quali Edith Stein, Etty Hillesum, Sophie Scholl, Stanisława Leszczyńska, Wanda Póltawska, Mafalda di Savoia, … è state testimone del bene, della dignità irrinunciabile e “sacra” di ogni uomo, testimone della forza e bellezza della vita, ad ogni costo.